Roma. Una città aperta alle differenze?
Amara Lakhous 27 May 2011

Kamal
Ho conosciuto Kamal, un ragazzo di 12 anni, durante una presentazione in una scuola romana. Sono rimasto davvero colpito dalle sue osservazioni che dimostravano una notevole maturità e una sottile ironia. Nato a Roma da genitori immigrati egiziani, Kamal parla perfettamente l’italiano, l’arabo e il romanesco. Ama i film di Verdone, tifa per la Roma. Nella sua camera da letto c’è un poster gigantesco di Francesco Totti, accanto a quello di Vasco Rossi. Incontrandolo per strada, sembrerebbe un ragazzo della porta accanto come tanti suoi coetanei, però, come precisa lui: «Quando sono a Roma, mi chiamano l’egiziano e quando vado al Cairo, mi chiamano l’italiano». E aggiunge: «Mi dicono spesso che non sono italiano, ma un extracomunitario perché i miei genitori sono di nazionalità egiziana. In realtà sono un extraitaliano perché parlo più lingue, conosco più cose di gastronomia, religione, cultura, politica, eccetera».

Il caso di Kamal non è isolato, visto che il problema tocca un’intera generazione, quella dei figli di immigrati, nati in Italia o arrivati da minorenni. Si parla di mezzo milione di persone che aspettano di diventare cittadini italiani. La vicenda delle banlieue in Francia insegna come sia pericoloso sottovalutare la situazione delle seconde generazioni. La frustrazione genera sempre rabbia e distruzione. Gli “extraitaliani” come il nostro Kamal hanno bisogno di sentirsi dei veri cittadini e non ospiti a casa propria.

Ibrahima
Ibrahima è un giovane immigrato senegalese. A sentirlo parlare del suo lavoro con competenza e passione, sembrerebbe un esperto internazionale di marketing. Invece Ibrahima è soltanto un venditore ambulante. «Il commercio è l’unica cosa che so fare perché è un “vizio” di famiglia, tramandato da padre in figlio per generazioni». Così scherza spesso con me, quando gli chiedo perché non cambia questo pericoloso mestiere, sempre nel mirino dei vigili e delle fiamme gialle.

Ibrahima si è fatto le ossa, accompagnando da bambino il padre, nei mercati popolari in Senegal. Conosce i segreti del mestiere molto bene, ma gli “affari”, ultimamente, non vanno bene. Il Comune di Roma ha dichiarato guerra all’abusivismo commerciale. I vigili hanno invaso Porta Portese, il famoso mercato popolare romano, intensificando i controlli. Per la compravendita, le strade e le piazze non sono più sicure come una volta.

Il giovane senegalese, in Italia dal 2000, non ci sta: «Questa è una vera persecuzione. Ci trattano come ladri, noi compriamo merci e le vendiamo. Poi il mercato e le strade appartengono a tutti, non sono proprietà privata».

Ho cercato di spiegargli che la situazione non è così. Prima di tutto, il mercato e le strade sono sotto la giurisdizione del Comune. Bisogna sempre munirsi di permessi per usufruire di uno spazio pubblico. Poi, il commercio è un settore soggetto a regole. Comprare merce senza badare alla provenienza, forse rubata, è ricettazione. Vendere merce contraffatta è un altro reato.

Non sono riuscito a persuadere Ibrahima perché il problema è sostanzialmente culturale. Forse, anziché dibattere sulla presunta “inclinazione” degli immigrati a delinquere, sarebbe utile iniziare a chiarire quei malintesi culturali che rendono la comunicazione complicata. Non è una questione di buona volontà, né di cattiveria. C’è qualcosa di più profondo e complicato che riguarda la visione del mondo, la distinzione fra il bene e il male, fra chi ha ragione e chi ha torto.

L’Orchestra di Piazza Vittorio
L’Orchestra di piazza Vittorio è un gruppo musicale fondato nel 2002 nel quartiere Esquilino di Roma, a due passi dalla stazione centrale Termini. Il meritato successo nazionale ed internazionale dell’Orchestra è frutto dell’incontro e dello scambio fra musicisti italiani ed immigrati, provenienti dal Senegal, Tunisia, Cuba, Brasile, Ungheria, Argentina, eccetera. Un paio di anni fa, si sono esibiti a Los Angeles conquistando gli applausi nientemeno di Lou Reed. Il prestigioso quotidiano americano The New York Times ha definito la loro esperienza artistica come una delle poche rappresentazioni vitali della cultura italiana.

Vitalità! Ecco la parola che vogliamo sentire frequentemente e non quella di criminalità, legata agli immigrati che delinquono.
La colorita banda di piazza Vittorio è dunque la dimostrazione che l’immigrazione non è sempre sinonimo di delinquenza e criminalità. Sarebbe dannoso considerare gli immigrati come minaccia da prevenire e non come risorsa economica e culturale da valorizzare.

Mi capita spesso di sostenere che passeggiando per le vie del quartiere multietnico dell’Esquilino è possibile prevedere il futuro dell’Italia nel bene e nel male: puoi ammirare la bellissima musica della nostra Orchestra o scoprire altre culture stando a casa, tuttavia puoi anche rimanere scioccato dalle scritte dei negozi solo in cinese o dalla giustificazione di qualche immigrato di lunga data che ripete fino alla noia la stessa frase: Io non parlo italiano! Bisogna sempre ricordare che l’incontro e il dialogo, a prescindere dai malintesi, producono conoscenza e miglioramento mentre l’isolamento e la chiusura generano sempre ed ovunque ghetti e scontri.

L’Orchestra di piazza Vittorio è un esempio vincente di integrazione vera: italiani e immigrati insieme si integrano in un modello nuovo di creatività, di rispetto reciproco.

Come sarà la Roma del futuro? Riuscirà a vincere la sfida della diversità? Lo sapremo fra qualche anno. La cosa certa che gli immigrati che vivono in Italia, soprattutto quelli provenienti da paesi musulmani, hanno una grande opportunità di confrontarsi con altri modelli culturali. I due valori da adottare, senza cedere al relativismo culturale, sono quelli della libertà individuale e della sacralità della vita. Sarebbe un grave errore cercare di difendere a oltranza le proprie radici culturali. Mio padre mi diceva: «Gli alberi hanno le radici per stare immobili, gli uomini hanno le gambe per muoversi, cambiare e migliorare la loro vita».

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