“Così vincono gli estremisti”
Una conversazione con Ayşe Kadıoğlu 30 June 2008

Come giudica la sentenza della Corte costituzionale turca, che mette al bando il velo nelle università?

La prima impressione è che l’Akp, il partito di governo, rischi seriamente la chiusura. Questa è la mia considerazione istintiva, poiché tutto sembra volgere in questa direzione. Sono assai scettica verso questa sentenza, soprattutto per il modo in cui si è potuto bloccare degli emendamenti costituzionali senza che nessuno battesse ciglio. Forse stiamo assistendo al tramonto del processo di democratizzazione. Per promuovere la democrazia, infatti, non si può prescindere dalle riforme costituzionali.

Il Parlamento e la società civile avrebbero dovuto dibattere e pronunciarsi sulla questione.

Proprio così. Quest’esito, invece, si ripercuote negativamente sulla politica in generale, che in un certo senso è ormai ridotta alla mera sopravvivenza. Quel che intendo dire è che le grandi, profonde questioni sono scomparse dalla scena politica, e quest’ultima si interroga ormai sul suo stesso futuro, sulla sua sussistenza. A dispetto di una lunga serie di problemi politici da affrontare al più presto, da un anno a questa parte ci si è sforzati esclusivamente, e finora inutilmente, di tenere in vita la politica.

Non crede che tutti i Paesi europei stiano dando, da un po’ di tempo a questa parte, eccessivo risalto alla questione del velo?

Ciò è senz’altro vero, ma direi il caso della Turchia è diverso da tutti gli altri. Qui parliamo del divieto di indossare il velo nelle università, quindi i diretti interessati sono cittadini adulti. È un problema radicalmente diverso, a mio parere. Non vedo come qualsiasi persona di sani principi e fedele ai fondamentali valori democratici, infatti, possa opporsi alla presenza di studentesse velate nelle facoltà universitarie. Ma ripeto, il problema negli altri Paesi europei è, a mio giudizio, ben diverso. In Europa, la diatriba sul velo interessa soltanto le scuole primarie e secondarie.

Qualcuno, come il politologo Andrew Arato, sostiene che la sentenza potrebbe anche mostrare un risvolto positivo, qualora la Corte costituzionale decidesse di non mettere al bando l’Akp.

No, per quel che mi riguarda la penso in maniera opposta. Giudico questa sentenza come un sintomo del potenziale decreto di chiusura dell’Akp.

Che cosa accadrebbe, in tal caso?

Nessuno lo sa, ed è proprio questo il problema. Nessuno può dirlo. Non so dirle quale sia l’esito del confronto in seno all’Akp. Sono convinta che abbiano in serbo precise strategie; si intravede, tra le altre cose, la formazione di un nuovo partito. Mi preme ripetere, però, che tutto ciò riguarda la mera sopravvivenza della politica, mentre una montagna di altri problemi aspettano di essere affrontati…

È lecito paragonare il partito Akp ai cristiano-democratici della Cdu in Germania?

Certo che sì. L’Akp è ovviamente considerato un partito conservatore, con una forte base religiosa. Ma tutti i partiti post-conservatori hanno una base religiosa, e sono sicura che l’Akp, al pari di qualsiasi altra formazione, conti tra le sue fila soggetti e gruppi fautori di un’agenda più radicale, ed altri soggetti e gruppi che remano in direzione opposta. In linea generale, dunque, è lecito sostenere che più istanze trovino voce all’interno di un singolo partito.

Qualcuno paventa che il clima generale della società turca stia mutando. Appena qualche settimana fa, per dire, una politica tedesca di origine turca si trovava nel bar del suo hotel di Istanbul e…

…e i camerieri si sono rifiutati di servirle un drink. (ride) Beh, sono sicura che ciò sia puntualmente accaduto in passato. Ora come ora, non ho sotto gli occhi dati statistici secondo i quali oggi più che in passato sarebbe difficile, in Turchia, farsi servire un drink. Ripeto, dieci anni fa la realtà era certamente questa, e in alcune città lo è tuttora. È un problema estremamente serio e da risolvere al più presto, me ne rendo perfettamente conto. Ma la giusta via da imboccare passa per la sfera della politica, ed è puntellata dall’attivismo e dall’impegno di forze politiche che contrastano le decisioni degli apparati: non dal ricorso a mezzi extra-politici o alla chiusura di un partito.

Per quale ragione, a suo parere, numerosi Paesi europei si oppongono all’ingresso della Turchia nella Ue?

Le ragioni principali sono, probabilmente, due. Le dico subito che la più importante non ha a che fare con la religione. Il fattore religioso, come tutti sanno, è secondario. La prima ragione è legata al fattore demografico: la Turchia è un Paese estremamente popoloso. Ed è quest’ultima, dunque, la ragione più plausibile. Si ha più difficoltà, onestamente, a comprendere il problema religioso, che pure fa la sua parte.

Lei è favorevole all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea?

Ovviamente sì. Sarebbe un fatto positivo sia per la Turchia, sia per l’Europa.

Perché?

Sarebbe un fatto positivo per l’Europa perché lancerebbe un segnale di apertura alla diversità. E perché la potenziale adesione della Turchia è assai dibattuta, a mio parere, all’interno della stessa Ue. Anche in seno all’Europa, in altre parole, la politica è alle prese con simili problematiche. I britannici sono tra i più favorevoli all’ingresso, agli antipodi dei francesi e degli austriaci. Ma sarà l’esito di questo confronto a plasmare il volto dell’Europa che verrà.

Traduzione di Enrico Del Sero

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