Ministro Ferrero, i provvedimenti previsti dal nuovo disegno di legge sull’immigrazione (introduzione dello sponsor, creazione di un sistema di liste, progressivo svuotamento dei Cpt, programmi specifici di rimpatrio) correggono alcune distorsioni della Bossi-Fini. Di fatto, però, la nuova legge non spezza il legame tra reddito e lavoro da una parte, e permesso di soggiorno dall’altra. Non si poteva fare di più?
Questa legge è il frutto di un accordo tra opinioni diverse dentro la maggioranza: se avessi dovuto scriverla da solo certamente non l’avrei scritta così. Detto questo, che è precisazione assolutamente necessaria visto che la priorità è fare una legge che venga approvata dal Parlamento, posso dire che il nostro provvedimento mantiene sì un legame tra lavoro e permesso di soggiorno, ma lo rende molto meno rigido di quanto non fosse nella Bossi-Fini. Da questo punto di vista, esso risolve non dico il cento per cento, ma il settanta per cento dei problemi creati dalle rigidità della precedente legge. Ecco perché lo considero un significativo passo in avanti.
Un altro punto critico della legge risiede nel meccanismo dello sponsor, che a detta di molti faciliterà enormemente gli ingressi.
Vede, il punto è questo. Attualmente la Bossi-Fini ha un solo meccanismo di ingresso: può entrare regolarmente solo l’immigrato che ha già il contratto di lavoro. Ora, noi abbiamo visto – concretamente, empiricamente – che questo meccanismo non funziona, perché determina una clandestinità enorme, dal momento che la gente è quasi obbligata a entrare clandestinamente in Italia per cercarsi il lavoro successivamente. La bontà della nuova proposta sta nell’avere invece una pluralità di modi legali di ingresso del paese. Ma c’è di più. La cifra complessiva di chi entra viene comunque fissata dal governo; da questo punto di vista dunque chi critica le sponsorizzazioni dicendo che darebbero indiscriminato accesso a chiunque dice il falso.
Voi avete previsto però anche la possibilità per l’immigrato di “autosponsorizzarsi” per entrare in Italia. Ma questa opportunità, oltre ad esporsi alle stesse critiche rivolte allo sponsor, non introduce una discriminazione tra gli stessi immigrati?
È evidente che l’autosponsorizzazione, essendo in realtà un permesso per ricerca di lavoro, può essere attivata solo da chi ha le risorse sufficienti per pagarsi la propria permanenza in Italia per i mesi in cui ricerca un lavoro. Faccio comunque notare che, in primo luogo, è una tra le strade possibili, ma non l’unica; e, in secondo, che molte volte gli immigrati pagano cifre altissime alla malavita organizzata. Il problema vero è allora mettere lo Stato, invece che la criminalità organizzata, come interlocutore degli immigrati, e da questo punto di vista l’autosponsor non solo non è discriminatorio, ma costituisce uno dei canali possibili di accesso. Che magari non sarà utilizzato dalla maggioranza delle persone, ma che resta una possibilità di ingresso legale che in quanto tale va salvaguardata.
Non c’è, allora, un problema di sicurezza.
L’obiezione circa la (in)sicurezza di tale misura è destituita di ogni fondamento, perché attualmente la malavita organizzata organizza la tratta dei clandestini, così come succede che le organizzazioni facciano figurare assunzioni finte in luoghi di lavoro in cui poi le persone non lavorano realmente. Nella Bossi-Fini ci sono tutti gli spazi perchè la criminalità organizzi o legalmente o illegalmente l’ingresso di chi chiunque. A me pare invece del tutto evidente che se un delinquente vuole entrare (posto che se è già riconosciuto come tale comunque non può entrare né con l’autosponsor né in altri modi), probabilmente l’ultima cosa che farebbe è usufruire di un canale che evidentemente avrà una particolare attenzione e che soprattutto permette alla polizia di identificarlo, sapere dove abita, come si mantiene etc. Insomma, se uno vuole venire qui a fare il criminale la cosa che più vuol garantire è il suo anonimato! Ecco perchè le obiezioni che vengono fatte all’autosponsor sono veramente campate sul nulla.
Tuttavia, non negherà che il tema della sicurezza è un tema centrale e viene avvertito dai cittadini come prioritario. Casi tragici di cronaca come quello di Vanessa Russo – la ragazza uccisa sul metrò di Roma da cittadine rumene, e quindi, è vero, europee – riaprono puntualmente infinite polemiche.
Quello della sicurezza è una tema centrale, e io penso che vada affrontato duramente. Credo ad esempio che vada potenziato il grado di contrasto della polizia rispetto alle organizzazioni criminali. Ma questa è proprio una delle funzioni di questa legge. Ridurre le possibilità di guadagni delle organizzazioni criminali sulla tratta dei clandestini è infatti un contributo alla sicurezza, esattamente come la fine del proibizionismo sugli alcolici negli Stati Uniti fu una misura decisiva per combattere la fiorente mafia che guadagnava sul traffico di prodotti distillati clandestinamente. La sicurezza fa rima con regolarità, mentre la Bossi-Fini, che ha condannato alla clandestinità centinaia di migliaia di persone, alimenta i canali della malavita organizzata, che proprio lì hanno l’acqua in cui pescare.
Veniamo al nodo dolente delle espulsioni. Voi puntate molto sulla collaborazione dell’immigrato. Ma questa strada sarà davvero efficace? Le persone che arrivano cercano a tutti i costi di restare.
Noi abbiamo cercato una strada per far sì che anche l’immigrato che arriva clandestinamente in Italia possa essere consensualmente interessato al rimpatrio a casa sua, evitando così di essere espulso per dieci anni come succede adesso. Anche qui si è tentato di trovare un elemento di consenso di fronte all’evidente fallimento dell’espulsione coatta, perché chi viene sbattuto fuori dall’Italia – magari dopo aver venduto la casa e lasciato tutto e avendo di fronte l’incubo di un divieto di reingresso legale per dieci anni – farà una e una sola cosa: cercare in tutti i modi di rientrare illegalmente in Italia e rimanervi tale: e questo vuol dire sostanzialmente spedirlo nelle mani della malavita organizzata.
Come riuscirà il governo a comunicare all’opinione pubblica le misure adottate? Insomma, non vorrei insistere, ma le campagne elettorali si vincono sul tema della sicurezza. Come facciamo a non lasciare questo valore alla destra, che ne rivendica in continuazione l’appannaggio ideologico?
Credo che occorra continuare a fare discorsi razionali come quelli che mostrano che gli immigrati regolari hanno una propensione a delinquere più bassa della media della popolazione italiana e che regolarità e lavoro sono due potentissimi elementi di inclusione sociale. Bisogna poi comunicare il nostro interesse nel far sì che la forza pubblica non sia costretta a tenere d’occhio milioni di immigrati, ma possa concentrarsi sulla delinquenza e sulle organizzazioni criminali: questo è un punto decisivo, perché ogni immigrato dovrebbe avere come interfaccia lo Stato, l’anagrafe, il comune e non le questure, intasate da un lavoro enorme. Poter concentrare le forze dell’ordine sul perseguire effettivamente i comportamenti criminali sarebbe secondo me un grande contributo alla sicurezza.
Veniamo al tema dell’integrazione. I provvedimenti previsti dalla legge, come il potenziamento dei mediatori culturali e l’adozione di “misure mirate”, appaiono un po’ generici. Quali le misure realistiche per integrare realmente chi arriva? E quanto costano?
Quanto ai costi, voglio rispondere subito che essi sono ripagati dalle tasse degli immigrati. Oggi abbiamo due milioni di lavoratori immigrati che pagano le tasse, finanziando il welfare state degli immigrati, senza avere in cambio nulla. Occorre che quelle risorse vengano usate anche per gli immigrati e che quindi il welfare funzioni per tutti. Il problema delle risorse non si pone, per il fatto che oggi siamo in debito: si tratta semplicemente di usare lo stesso peso per tutti.
Ma questo vale anche per i giovani e altre categorie, invece non è così!
Esattamente, purtroppo.
Quanto alle misure concrete?
Io credo che bisogna partire anzitutto dalla lingua, cioè da un grande programma dell’insegnamento dell’italiano, che è il principale elemento di inserimento nel tessuto sociale italiano: esso permette di comunicare con gli altri – con la maestra del figlio come con chi ci vende la spesa – e così di trasformare un territorio in una comunità. Il secondo elemento, strettamente legato a questo, è quello della mediazione linguistica e culturale, che va fatta dappertutto (sui luoghi di lavoro etc), a partire dai cartelli in più lingue per la sicurezza fino alle istruzioni per l’accesso al sistema sanitario nazionale o ai corsi di aiuto sulla lingua italiana per gli studenti che non sanno l’italiano. Lingua e percorsi di mediazione, dunque, come strumenti da potenziare, specie nella fase intermedia dell’integrazione, che è quella che stiamo vivendo oggi.
Alla legge voi avete affiancato la Carta dei Valori, che non ha tuttavia valore vincolante. Non a caso ha scritto Giovanna Zincone sulla “Stampa”: “Non si capisce se la carta dei valori condivisi sarà illustrata obbligatoriamente ai potenziali immigrati, e magari si chiederà loro di condividerne i contenuti (rispetto alla dignità della persona, parità tra i sessi, libertà religiosa e laicità dello stato) o se sarà lasciata come un faro solitario adibito a illuminare solo i volenterosi che vi si avvicinano”.
La Carta non ha un valore normativo, no. Ma io personalmente sarei contrario che lo avesse, perché credo che l’unica Carta che ha valore normativo sia la Carta costituzionale e le nostre leggi, e penso che i principi della civiltà siano quelli del nostro ordinamento costituzionale, che è essenziale perché ci permette di convivere civilmente nel nostro paese. Detto questo, io credo che la Carta, che pure ha dei passaggi che non condivido, sia una spiegazione, abbia cioè in qualche modo una funzione esplicativa – quasi un corso di educazione civica. Ma, ripeto, certo non vedrei uno scenario in cui per gli immigrati c’è la Carta dei Valori e per gli italiani c’è la Costituzione. Le regole che stabiliscono i principi e valori che informano la nostra civile convivenza devono essere uniche per tutti.
Lei ha criticato sia il modello assimilazionista francese che quello multiculturale inglese. Esiste una via italiana all’integrazione? Ma non dovrebbe in definitiva esistere una via europea?
Io penso che, intanto, ne vada trovata una italiana che secondo me si basa su alcuni pilastri: il primo è la centralità della lingua, perché la comunicazione sia tra tutti. Quanto alla parità dei diritti civili e sociali e al rispetto delle differenze, credo che occorra un’altra misura relativa alla libertà religiosa. Il modello italiano dovrebbe essere un modello che non obbliga le persone a perdere la loro identità o a dover scegliere tra l’identità italiana e una loro identità preesistente (penso al nodo del velo), perché secondo me questo determinerebbe un conflitto di cui non vedo la necessità. Introdurre una codificazione dei comportamenti morali e di costume degli italiani come costitutivi della nostra civiltà sarebbe artificiale e sbagliato, perché di fatto non varrebbero neanche per gli italiani stessi: settant’anni fa molti italiani avevano il velo, per così dire, oggi mediamente non ce l’hanno, e certo non sono meno italiani. Non si può inchiodare l’Italia ai costumi. Noi dobbiamo garantire i diritti alle singole persone e chiedere loro il riconoscimento dei principi costituzionali, così come dobbiamo riconoscere alle singole persone la possibilità di essere musulmane e italiane assieme, senza che questo venga letto come necessario contrasto. Dunque riconoscere le diverse fedi e le diverse appartenenze culturali e al tempo stesso chiedere che queste diverse fedi riconoscano l’ordinamento italiano e il suo funzionamento democratico (in primo luogo ciò che esso prevede circa la parità uomo-donna).
Perché invece gli altri modelli sono sbagliati?
L’assimilazionismo diventa una sorta di morale “coprente”, appiattente, che viene presa come la cartina di tornasole che verifica l’integrazione o meno. Il modello comunitario invece è quello della costruzione delle enclaves, dove la garanzia per avere diritti è l’appartenenza alla comunità. No, io auspico un modello che obblighi tutti a confrontarsi gli uni con gli altri e che, senza appiattire il migrante su un aspetto specifico della sua identità (religiosa, o che ha a che fare con il colore della pelle), permetta a tutti di modificarsi e quindi di sentirsi italiani e accettare i principi fondanti dell’essere italiani, pur nelle differenze di percorsi, di idee religiosi, di costumi. A patto che questi non vadano a sbattere contro i punti fondamentali. Quindi no alla poligamia. Ma il velo, francamente, è una scelta individuale.
La gestazione della legge e la sua formulazione appaiono una buona mediazione tra le istanze di una sinistra più radicale e di una più moderata. Non si potrebbe applicare lo schema Amato-Ferrero anche ad altri argomenti, altrettanto caldi rispetto a quello dell’immigrazione?
Io penso di sì, e sono impegnato a farlo sulla legge sulle droghe che sto preparando.