La blasfemia in Europa, dalla tutela di Dio alla tutela dei credenti
Silvio Ferrari, Università degli Studi di Milano 14 February 2014

Innanzitutto la blasfemia non ha a che fare con la religione bensì con il sacro, con ciò che ha un significato centrale, inviolabile ed incommensurabile per la vita di un individuo o un gruppo di persone. Può essere la religione ma, come la storia ci ha mostrato, può essere anche la nazionalità, l’etnia, una ideologia politica. Nella seconda metà dell’Ottocento, quando il sentimento di nazionalità ha sostituito il sentimento religioso come cemento della coesione sociale, sono apparse nei codici penali dei paesi europei norme che replicano il modello della blasfemia ma lo applicano a valori e principi secolari: il vilipendio della Nazione si affianca al vilipendio della religione, l’oltraggio alla bandiera o all’inno nazionale assume lo stesso significato dell’oltraggio ai simboli religiosi, l’offesa della Costituzione diviene l’equivalente dell’offesa dei testi sacri di una religione. La blasfemia contro Dio, la più antica e collaudata, fornisce un modello che – quando la religione cessa di essere il collante della società – viene applicato ai nuovi dei. Gilbert K. Chesterton scriveva di avere paura di una società in cui la blasfemia fosse impossibile perché sarebbe stata una società priva di ideali capaci di scaldare il cuore delle persone: se noi vogliamo un mondo che recuperi il valore delle fedi e delle convinzioni è necessario trovare meccanismi che regolino la blasfemia senza anestetizzare le passioni. Al di là di alcune esasperazioni che non possono essere condivise, questo è il significato della rivendicazione del carattere etico della blasfemia avanzata da Austin Dicey nel suo libro The Future of Blasphemy (Continuum 2012): uno spazio pubblico funzionale ad una società liberale e ad uno Stato democratico deve essere costruito e regolato in modo tale da consentire la diversità delle opinioni, incluse quelle più impopolari e controverse.

Le cose però non sono così semplici. Dicey non considera che oggi la blasfemia non è una questione di contenuto ma soprattutto di forma: una affermazione blasfema, se espressa con le modalità argomentative e distese del ragionamento, ha un impatto molto meno forte della stessa affermazione espressa da un’immagine, sia essa contenuta in una vignetta, un’opera d’arte o un film. Questa diversità è stata lucidamente colta da Nilüfer Göle (Turkish Delight in Vienna: Art, Islam, and European Public Culture, in Cultural Politics, 2009, 5, 3, pp. 277-98): la velocità delle immagini e la forza della “sensorial communication” pone in crisi il modello razionale e discorsivo di comunicazione che è al centro della nostra concezione di sfera pubblica. In altre parole, la blasfemia colpisce il cuore prima ancora della mente delle persone e svela la componente emotiva che è sottesa ai processi di comunicazione e che emerge non appena si scalfisce la superficie razionale del discorso. Le vignette danesi su Maometto o la rana crocefissa di Kippenberg intendono suscitare emozioni prima ancora di trasmettere un messaggio razionale: la loro forza sta nella velocità dell’immagine che bypassa la mediazione della ragione. Di conseguenza il modello habermasiano di sfera pubblica, intesa come spazio di dibattito razionale, non riesce a comprendere e gestire processi comunicativi che non danno il tempo alla ragione di esercitare la sua funzione interpretativa. La forza delle passioni irrompe nella sfera pubblica e scatena reazioni violente che potrebbero essere evitate soltanto attraverso la censura delle parole, degli atti o delle immagini che provocano lo scontro: in tal modo la società liberale si trova di fronte ad un dilemma irresolubile tra subire la violenza per difendere la libertà di espressione oppure censurare le manifestazioni del pensiero per salvaguardare la sicurezza e la pace sociale. Qualunque sia la scelta, la partita si chiude in perdita e questo risultato mostra che è necessario trovare altre strade per regolare la questione della blasfemia.

Senza alcuna pretesa di trovare una soluzione in queste poche pagine, mi pare opportuno considerare l’evoluzione che, in questo campo, ha caratterizzato il diritto dei paesi europei: essa infatti fornisce interessanti spunti di riflessione ed indica un percorso che può essere significativo anche per altre regioni del mondo.

Dopo la seconda guerra mondiale i codici penali di molti Stati del Vecchio Continente hanno modificato le norme sulla blasfemia, spostando l’oggetto della tutela da Dio alle persone che credono in Dio. In parole più precise, il bene giuridico protetto dal diritto non è più Dio, la religione o i suoi simboli ma la persona che, credendo in quel Dio o in quella religione, rivendica il diritto di non essere perseguitata, discriminata o offesa a causa delle proprie convinzioni. Questo processo è ancora lontano dall’essere completato ma da un lato ha determinato la scomparsa delle norme sulla blasfemia in paesi come la Francia, il Regno Unito, l’Olanda, la Spagna, l’Austria e la Germania, dall’altro ha favorito l’introduzione, nei sistemi giuridici di quasi tutti i paesi europei, di nuove norme che si prefiggono tre finalità differenti ma complementari. Innanzitutto esse criminalizzano l’insulto o la diffamazione di una persona o un gruppo di persone a causa della loro religione, razza, etnia, orientamento sessuale e via dicendo; poi puniscono le espressioni che, per gli stessi motivi, incitino l’odio contro un individuo o un gruppo; infine sanzionano le offese contro la sensibilità religiosa (o quella nazionale). Quest’ultima categoria di norme è la più controversa per l’imprecisione dell’espressione sensibilità religiosa: anche in questo caso, comunque, l’oggetto della protezione non è la religione per sé ma il turbamento della pace sociale determinato dall’espressione offensiva. In tal modo la religione non è più destinataria di una protezione speciale ma è tutelata al pari di altre caratteristiche che identificano una persona o una comunità.

Questa evoluzione del diritto dei paesi europei riflette lo spostamento del nucleo centrale della blasfemia dal contenuto della comunicazione al modo in cui esso viene manifestato: il primo deve essere totalmente libero, il secondo può essere limitato quando viola la dignità della persona umana e turba l’ordine sociale. La connessione tra questi due ultimi elementi sta al centro della riflessione di Jeremy Waldron (The Harm in Hate Speech, Harvard Univ. Press, 2012): “Public order means more than just the absence of fighting: it includes the peaceful order of civil society and the dignitary order of ordinary people interacting with one another in ordinary ways, in the exchanges and the marketplace, on the basis of arm’s-length respect. Above all, it conveys a principle of inclusion and a rejection of the calumnies that tend to isolate and exclude vulnerable religious minorities”. Naturalmente non è facile distinguere tra contenuto e forma della comunicazione né fissare la linea che separa una legittima e salutare provocazione dall’insulto. Però la direzione in cui si sta muovendo il diritto dei paesi europei ha il vantaggio di offrire una adeguata protezione della dignità delle persone, che si rivela particolarmente preziosa per le minoranze, le principali destinatarie delle espressioni discriminatorie e offensive. In questa prospettiva i sistemi giuridici dei paesi europei si distaccano non solo da quelli di alcuni paesi a maggioranza musulmana dove la libertà di espressione è sacrificata sull’altare della tutela della religione di maggioranza, ma anche da quello degli Stati Uniti, che privilegia la libertà di espressione anche a costo di lasciare impunito l’incitamento all’odio religioso.

Silvio Ferrari è Professore Ordinario in diritto canonico e diritto ecclesiastico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano.


Approfondimento audio:
“Libertà di religione e libertà di espressione: blasfemia e incitamento all’odio religioso”

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