Zygmunt Bauman e Alain Touraine 3 December 2012

L’Europa nel mondo globale
Giancarlo Bosetti in conversazione con Zygmunt Bauman e Alain Touraine

Giancarlo Bosetti: Nello spazio pubblico europeo vi sono numerosi partiti conservatori e xenofobi che strumentalizzano l’ansia e l’insicurezza della popolazione e condizionano fortemente il dibattito pubblico: Geert Wilders in Olanda, la Lega Nord in Italia, Le Pen e il Front National in Francia, il candidato di estrema destra di ispirazione nazista che nelle elezioni in Austria del 2008 ha fatto il 15%, non sono che degli esempi. Molti partiti liberali e progressisti sembrano in fase di stallo; alle elezioni inglesi il candidato che poi ha vinto, Gordon Brown, aveva una piattaforma quasi interamente basata sul tema dell’immigrazione. Bauman, lei ha investigato a fondo il rapporto tra paura e modernità. Come dominare la paura legata alla questione dell’immigrazione, alla sindrome dell’idraulico polacco o musulmano che può condizionare enormemente le scelte degli elettori? Come si prospetta il futuro europeo?

Zygmunt Bauman: L’immigrazione è un tema sicuramente centrale in Europa, resta da chiedersi il perché. Tutti noi presupponiamo, forse a torto, che i politici siano esseri razionali e che come tali si pongano rispetto al capitale politico. Il fatto è che il capitale politico si concentra nel tema dell’immigrazione. Migrazione e modernità sono due fattori imprescindibili l’uno dall’altro. La modernità ha due industrie principali, una delle quali è la migrazione che produce popolazione ridondante, vale a dire popolazione a cui non può essere trovata una collocazione: le persone devono stare in costante movimento. Questo perché uno dei presupposti della modernità è l’ordine: ovunque ci sia un immagine di ordine prestabilito ci sono necessariamente persone che non rientrano nel quadro, dalle minoranze perseguitate ai rifugiati, persone eccedenti che non rientrano nella percezione complessiva che una società ha di sé stessa. La seconda industria della modernità è il progresso economico, che consiste, nella sua accezione più scarna, nella possibilità di produrre lo stesso numero di oggetti con una quantità progressivamente minore di lavoro. Alcune persone, e di conseguenza i loro stili di vita e le loro professionalità, diventano a loro volta ridondanti, sono destinate a perdere capitale personale e devono andare in cerca di fortuna altrove. La migrazione non è un fenomeno nuovo, è legata all’Europa sin dai tempi in cui questa si è imposta come forza principale nel processo globale di modernizzazione. Quando l’Europa era l’unica forza modernizzatrice gli europei erano anche gli unici che emigravano. Circa duecento anni fa, tra i 50 e gli 80 milioni di europei emigrarono nelle terre deserte del Sud America, dell’Australia, dell’Asia. Si trattava sicuramente di un tipo diverso di migranti, certo, ma probabilmente i nativi di quelle terre non furono entusiasti di doverli ricevere, né più né meno come accade oggi. Poi, in seguito al collasso del colonialismo e dell’imperialismo, l’impero è tornato indietro. Gli abitanti delle colonie francesi si sono trasferiti in Francia, quelli delle colonie inglesi nel Regno Unito; in alcuni casi, come quello francese, l’immigrazione proveniente dall’Algeria è stata percepita come una migrazione interna, una traiettoria migratoria determinata dal passato coloniale. Quando l’Inghilterra si è trovata ad affrontare la ricostruzione nel periodo post-bellico, le è sembrato naturale richiamare le popolazioni delle colonie caraibiche per contribuire alla ricostruzione della madrepatria.

Oggi abbiamo un tipo di migrazione diversa, diasporica: le persone che emigrano sono riluttanti ad accettare le tradizioni culturali del posto in cui si trasferiscono, sono resistenti all’assimilazione, restano straniere a lungo e ci sono davvero poche chance di accomodamento. Le diaspore sono tipiche nei casi di identità multiple (un individuo che si descrive in termini di due o più identità diverse) e non sono altro che un ulteriore tratto distintivo dei nostri tempi, dominati da un insicurezza perenne. In questa sistematica incertezza, tutto può succedere, ma niente può essere fatto. Perché la figura retorica dell’idraulico polacco o, nella sua versione aggiornata, di quello musulmano ha così tanta presa? Gli immigrati sono il capro espiatorio naturale, sono l’avamposto del grande ignoto, di tutto ciò che intuiamo ma non riusciamo ancora a vedere. Uomini molto potenti come Sarkozy, possono avere controllo su quello che accade nel loro paese ma certamente non essere al corrente di quello che accade per esempio in Malesia, di come i capitali circolino globalmente, di come appaiano e spariscano. Invece gli immigrati sono lì per essere gestiti sul momento e in quanto tali sono molto utili al potere. Di per sé, gli immigrati sono un’invenzione, e “se non ci fossero qualcuno avrebbe dovuto inventarli”: questo è l’atteggiamento della politica. Gli immigrati sono concreti, tangibili, visibili: rendono familiare quello che non conosciamo, materializzano l’ignoto, possono essere soggetti ad azioni concrete: si può dare un limite al loro numero, se ne possono mandare alcuni a casa, si possono intraprendere tutta una serie di azioni che sarebbero impensabili rispetto, per esempio, alla circolazione di capitali a livello globale. È una tentazione irresistibile e molto seduttiva, per la politica. Gli immigrati rispondono perfettamente alla ragione per cui sono stati creati. Governi e poteri diventano visibili attraverso la gestione delle migrazioni, bilanciano così la loro impotenza nei confronti della finanza mondiale o delle industrie che si trasferiscono di paese in paese, fenomeni che strutturalmente sfuggono al controllo dei governi locali. Invece gli immigrati puoi farli vedere in televisione e aumentare la popolarità del governo, puoi dire agli elettori: stiamo facendo concretamente qualcosa. Le ultime elezioni inglesi, che ho osservato molto attentamente, sono state interamente monopolizzate dal dibattito sull’immigrazione, l’obiettivo comune a tutti i partiti era ridurre la minaccia da essere rappresentata. Nessuno ha parlato della minaccia rappresentata dalle cause dell’immigrazione, nessuno ha parlato di fattori globali. Gli immigrati diventano portatori di un messaggio che non è il loro e che non è stato creato da loro, ma ciononostante vengono penalizzati lo stesso. E’ vero che i lavoratori stanno perdendo il posto, ma gli immigrati arrivano in Europa in primo luogo perché è il lavoro in generale che sta scomparendo; sono persone che hanno perso la loro professionalità e sono diventate inutilizzabili, non differentemente da quanto accade ai lavoratori europei stessi. C’è poi la conflittualità legata alla richiesta di servizi sociali, quando bisogna capire che a prescindere dagli immigrati, i servizi sociali sono destinati a sparire, lo stato sociale ha perso la sua dimensione di sovranità. Infine il terrorismo: se uno piazza una bomba in Pakistan, un cittadino pakistano che vive ad Huddlesfield in Inghilterra viene guardato con diffidenza, come se avesse dei legami con quella circostanza. Questo perché il cittadino inglese, mentre sente di non avere nessun potere nei confronti della crisi finanziaria o del terrorismo, sente di averlo nei confronti del vicino di casa. In questo contesto globale, che sta gradualmente erodendo le condizioni di vita che ci erano familiari, siamo tutti vittime, immigrati compresi. Ma finché le vittime lottano con altre vittime, i perpetuatori e gli esecutori del cambiamento potranno dormire sonni tranquilli.

Bosetti: In tutto ciò c’è lo spazio anche per delle contraddizioni: alcuni paesi europei non hanno una popolazione sufficiente per adempiere a tutte le loro necessità, così i governi chiedono addirittura maggiore immigrazione.

Alain Touraine: Concordo con Bauman su una questione fondamentale: quando parliamo di immigranti non li consideriamo come persone, non siamo affatto interessati alla loro religione, al loro stile di vita, al modo in cui gestiscono la vita famigliare. Il concetto di migrazione o di immigrato implica che sia le reazioni contro e verso queste persone, sia le reazioni degli immigrati stessi, sono determinate da fattori esterni. L’immigrato non è necessariamente una vittima. Ma è una persona la cui situazione e dimensione non viene presa in considerazione dalla società in cui si ritrova a vivere: il che è anche peggio rispetto a essere una vittima. Queste persone che portano con sé delle capacità, denaro, beni, vengono valutate solo in rapporto al sistema della società di arrivo, da un altro tipo di persone, e questo non ha nulla a che fare con problematiche sociali interne. La conflittualità tra classi sociali, la stratificazione del lavoro, lo scontro di genere, sono tutte cose che appartengono a un altro ordine di problemi. E’ questo il motivo per cui vorrei parlare di immigrati senza nominarli. Quel che sappiamo con certezza è che molti paesi europei sono stati paesi di emigrazione, fatta eccezione per Francia e Inghilterra che invece sono paesi di immigrazione. Pensiamo all’Impero Britannico: gli immigrati erano considerati interni alla madrepatria, incorporati. La storia francese, a causa del colonialismo, è stata diversa: il problema non erano le popolazioni musulmane in arrivo dal Nord Africa quanto i belgi, gli italiani, gli spagnoli, gli ebrei askenaziti dall’Europea Centrale o dell’Est. La Francia è stato un paese fortemente antisemita nel periodo tra le due guerre e il risentimento nei confronti degli italiani e degli spagnoli era piuttosto forte. Prima del 1933, il contesto francese non era molto diverso da quello tedesco o austriaco. Perché in questi due paesi è poi degenerato e diventato qualcosa di completamente diverso, estremo? Eppure la rabbia contro gli immigrati era esattamente la stessa in Francia. Dopo la guerra il problema principale era rappresentato dalla ricostruzione, e in quel momento nessuno ha più parlato di immigrazione, il problema era improvvisamente sparito dall’agenda politica, quando il paese invece era pieno di immigrati. Per molto tempo la Francia ha rimosso di essere un paese di immigrazione, se uno ne cerca tracce nei libri ne trova molto poche. In una delle sue lectures, uno studioso dell’epoca disse che l’immigrazione era un problema per paesi come gli Stati Uniti, non di certo la Francia, mentre il tasso di immigrazione tra i due paesi era esattamente lo stesso. Ma i francesi non lo sapevano. Dopo la guerra ci fu il periodo della ricostruzione e della redistribuzione della crescita all’interno del paese. La prima generazione di immigrati venne per lavorare, la seconda per integrarsi. La terza non ha fatto in tempo, si è trovata subito coinvolta in un processo di dis-integrazione. Il motivo è chiaro: il passaggio da un’economia statale a una di mercato, soprattutto a partire dal 1974, con la crisi del prezzo del petrolio. Gli anni sessanta hanno rappresentato la disgregazione di un vecchio mondo culturale, anticipando la disgregazione di un vecchio mondo economico. Almeno fino agli anni Novanta, c’è stata questa fase cambiamento. Poi è come se ci fossimo trovati in una situazione di crisi permanente. In questo arco temporale la crescita si riduce, le trasformazioni tecnologiche accelerano, migliaia di persone perdono il proprio posto di lavoro: è il collasso dell’ordine socioeconomico tradizionale, molti immigrati vengono respinti. Artigiani, piccoli negozianti e alcuni operai, persone che si ritenevano parte della middle o lower-middle-class, sono state espulse dal sistema e sono diventate un caso sociale. Come ha spiegato Saskia Sassen a proposito di città come Londra, New York e Tokyo, le persone che vengono espulse dalla società a causa del crollo dell’ordine economico si riorganizzano: vogliono ancora far parte della società e pertanto devono inventare una nuova categoria che possa occupare un posto inferiore al loro, devono produrre degli emarginati. Gli immigrati, soprattutto quelli che vengono dalle ex-colonie francesi in Africa, sono i prescelti per occupare questo ruolo. Vengono inventati di sana pianta: nessuno li aveva nominati, nessuno ci faceva più di tanto caso. E’ anche in via di queste ragioni che la Francia è stato uno dei primi paesi europei ad avere un partito di estrema destra, sostenuto da piccoli negozianti, artigiani e parte della classe lavoratrice. La questione religiosa non aveva alcuno peso: da buon fascista, Le Pen è assolutamente anti-cristiano, questa dimensione non gli interessava affatto. Successivamente la questione degli immigrati si è sensibilizzata anche a fattori esterni, a causa del mondo musulmano che ha iniziato a prendere sempre più consapevolezza di sé stesso. Ai tempi di Nasser il mondo arabo tentò, senza riuscirci, la carta della modernizzazione. Dopo l’illusione del nazionalismo arabo firmato Nasser, l’unica soluzione per gli arabi è stata quella di definirsi in quanto musulmani, appartenenti a nazioni islamiche. La trasformazione dell’Islam in un attore forte del panorama mondiale, che attacca l’Occidente, condiziona inevitabilmente la situazione degli immigrati, che sono definiti all’interno dalle classi sociali basse per dimostrare a loro stesse che loro non sono il raschio del barile e dall’esterno dalla sempre più influente orbita islamica. Non è secondario il fatto che negli ultimi anni gli attacchi all’occidente siano stati perpetuati da arabi occidentali stessi, come nel caso delle torri gemelle o di episodi terroristici in Germania. Il problema è che tendiamo a vedere immigrati ovunque, anche quando non lo sono: si tratta di persone nate in Germania, Inghilterra, Francia, la maggior parte delle quali gode del diritto di cittadinanza. Gli immigrati sono stati inventati come un gruppo in blocco, un gruppo attivo, violento, che arreca disordine nelle periferie e connivente con i terroristi. Ritengo tuttavia che quella attuale sia una situazione non strutturata e che la principale preoccupazione delle popolazioni europee non siano le popolazioni provenienti dai paesi arabi quanto quelle dall’Est. In Italia e in Francia la preoccupazione nasce dai rumeni, i polacchi, le diverse tipologie di rom, che sono gli immigrati più visibili: quelli che mendicano nelle strade francesi sono al 95% rom o rumeni. La nostra condizione storica è tale per cui la questione degli immigrati è stata modellata da due forze esterne, le stesse che recentemente hanno prodotto la reificazione degli immigrati musulmani, responsabili di colpe che non hanno nulla a che fare con loro. In futuro, ci saranno nuove categorie destinate a occupare lo stesso spazio di esclusione.

Giancarlo Bosetti: Bauman, lei ha spiegato come nelle elezioni inglesi, vinte poi da Gordon Brown, si sia parlato molto di immigrazione ma mai delle cause che la producono. Cosa può essere fatto per modificare almeno in parte questa situazione?

Zygmunt Bauman: La retorica e l’ipocrisia proprie della politica costringono i politici ad avere bisogno degli immigrati. C’è poi la questione del lavoro, in particolare dei lavori sgradevoli che pure devono essere fatti, come quelli nell’industria dei servizi (alberghi, ristoranti), tutte professioni che sono considerate con disprezzo dagli inglesi. I tre partiti coinvolti nelle elezioni, i Tories, i Labour e i Liberal avevano piattaforme pressoché indistinguibili nei confronti dell’immigrazione, ho fatto molta fatica nel trovare delle differenze. Di fondo, avevano tre nomi diversi per lo stesso obiettivo: controllarne il numero degli immigrati, espellere i sans papiers e rendere il processo di naturalizzazione sempre più complicato.

Alain Touraine: Concordo sulla crucialità del tema lavoro. Una delle trasformazioni principali che ha contribuito all’invenzione del fenomeno immigrati è stata la scomparsa dei sindacati.

Giancarlo Bosetti: Intravedete nuovi movimenti sociali capaci di visione globale all’orizzonte? Non intendo ovviamente alludere alla cornice dei vecchi partiti socialisti internazionalisti. Credete ci sia la possibilità di nuove iniziative di dimensione internazionale in grado di produrre un qualche cambiamento?

Zygmunt Bauman: Vorrei chiarire che per me le problematiche globali possono essere risolte solo da soluzioni globali. Quelle avanzate da singole nazioni o persino da una congrega di nazioni non possono aspirare ad avere un valore definitivo e assoluto, c’è una totale discrepanza tra il potere locale degli stati e quello globale, che tende a evitare qualsiasi restrizione. E’ cosa ovvia che i movimenti nascano a base locale e non in luoghi astratti. I migranti sono in un certo senso una finzione linguistica e non possono assumere il valore di un movimento. Non sono un gruppo integrato e non si integrano tra di loro. Le peggiori rivolte urbane inglesi non si sono verificate tra inglesi e pakistani, ma tra immigrati stessi. I pakistani troverebbero molto più semplice convivere pacificamente con i loro vicini inglesi piuttosto che con i loro vicini indiani. La possibilità che gli immigrati si integrino tra di loro è inferiore a quella che si integrino nella società generale, quella in cui si sono trasferiti.

Alain Touraine: A causa delle trasformazioni generiche di cui ho parlato, non esistono più movimenti sociali. In senso stretto, non esistono più movimenti politici, che per loro natura si fondano su rivendicazioni di carattere economico e sociale. Certo, in Colombia, Perù e altri stati del Sud America le classi operaie lottano ancora contro il capitale, ma è un fenomeno che esula dallo schema generale. Siamo già al di fuori di una società industriale e gradualmente tutto ciò che ha un’inflessione sociale sta sparendo. Quindi non ci sono più movimenti sociali, ma ci sono movimenti culturali: due su tutti, anche se uno è più visibile dell’altro. Il primo è quello ecologista. I timori legati alla questione ambientale stanno diventando altrettanto importanti di quelli legati all’economia. Una cultura compatibile o avversa all’ambiente, parliamo di questo. Ha ragione Bauman quando afferma che ormai tutto ha un ordine globale, e il movimento ecologista lo è. Persino in Inghilterra quello dell’ambiente è stato un tema forte nella campagna elettorale dei liberals, e in Germana il partito verde ha una consolidata tradizione storica. In Francia, in alcune circoscrizioni, i verdi hanno ottenuto lo stesso risultato dei socialisti, il che ci fa intravedere che la domanda è enorme. Il secondo movimento è quello delle donne, che a differenza di ogni movimento sociale è interessato all’uguaglianza, non alla vittoria. Ritengo plausibile affermare che viviamo già in una società di donne. Il modello sociopolitico europeo è stato quello di concentrare tutte le risorse presso piccole élite, opprimendo gli individui al di fuori di questa cerchia. Gradualmente i lavoratori sono riusciti a rivendicare e ottenere dei benefici, ma questo modello di lotta è ormai superato. Adesso viviamo in un contesto in cui i conflitti sono estremamente polarizzati e le donne risentono di questa polarizzazione. Ho studiato a lungo il fenomeno, malgrado esso non sia ancora del tutto visibile.

Giancarlo Bosetti: Forse una nuova dimensione pubblica internazionale sta già emergendo. In fondo le confessioni religiose hanno le loro strutture, i no global hanno il social forum, le istituzioni politiche hanno i loro riferimenti internazionali. Tutto questo contribuisce a delineare un nuovo futuro?

Zygmunt Bauman: Adotterò un vecchio motto irlandese per rispondere a questa domanda. Un autista ferma la macchina in mezzo alla strada e chiede a un passante quale sia il percorso migliore per arrivare a Dublino. Il passante ci riflette per un po’, poi confessa: “Lo sa signore? Se dovessi andare a Dublino non partirei certo da qui”. Ecco, è lo stesso problema che si pone quando parliamo di dimensione internazionale e globale. Il concetto di internazionale presuppone l’idea di inter-stati: quelli che si incontrano sono governi, ministri, delegazioni, non di certo delle nazioni. Il concetto di internazionale non fa che occultare la vacuità della politica globale. L’Onu nacque con degli obiettivi precisi, prevenire violenza, esercitare funzioni di controllo, ma è in crisi da tempo. Attualmente i governi non si occupano più di sovranità nazionale ma si appassionano a cause di ordine globale, partendo da un presupposto del tutto errato, perché è la loro stessa struttura a essere incompatibile con il globale. L’unica speranza viene dai movimenti popolari che ignorano confini territoriali, e possono portare qualcosa di nuovo. Le istituzioni politiche che detengono il potere, così come le conosciamo, non sono disposte, e non sono neanche adatte, a risolvere questioni globali attraverso strategie globali.

Alain Touraine: Io non credo affatto che siamo alla vigilia di un nuovo ordine mondiale, così come non credo che verranno instaurati nuovi accordi politici. Prendiamo in esame la figura di Obama. Obama è stato bravissimo, con l’aiuto di alcuni paesi europei, a mettere un freno alla crisi economica. Ma non è stato in grado, o forse non ha voluto e dunque è lo stesso, di trasformare o assumere il controllo del sistema finanziario. ll sistema finanziario attuale ha perso quasi del tutto le sue funzioni economiche. Stiamo entrando in una fase in cui l’unica forma di resistenza all’economia globale, e come Bauman quando parlo di globalità dico qualcosa di molto diverso da internazionalità, si fonda sui diritti umani e un universalismo ispirato da principi morali, in cui le minoranze giocano un ruolo molto importante. Dal punto di vista europeo, Obama rappresenta il primo presidente americano che non ha alcun tipo di interesse verso l’Europa, anzi, ne parla in termini molto duri come di un gruppo di ventisette persone incapaci di prendere una decisione tra di loro, e in questo è difficile dargli torto. L’Europa ha una posizione sempre più marginale non solo rispetto agli Stati Uniti, ma anche rispetto alla Cina, l’America Latina, l’Africa. Siamo una popolazione altamente morale in un contesto geopolitico in cui l’Europa non ha nessuna importanza. E’ ovvio che preferirei che il mondo occidentale fosse guidato da due forze, e non solo dagli Stati Uniti. Ma gli europei non sono in grado di assumersi questo carico e gli Stati Uniti, per quanto intraprendano spesso decisioni sbagliate, almeno sono in grado di prenderle. Il problema dell’Europa, inoltre, è che un mondo ormai vuoto di significato, non c’è una cultura europea (e perché mai dovrebbe essercene una sola con tanti stati membri?), non c’è indipendenza, tutto il nostro centro di potere dipende da Wall Street, per intenderci. Non parliamo poi di politiche sociali o di dibattito interno, cosa dovrebbero avere in comune Londra e Bucarest? Ci sono più affinità tra Londra e Istanbul, che come sappiamo non fa parte dell’Unione. Fine dei movimenti sociali, dunque. Ci sono però dei movimenti popolari, come in Messico, o in Cina, dove però vengono strozzati a un certo punto. Dovremmo accettare l’idea che la risoluzione di determinate conflittualità non avverrà più all’interno di un sistema nazionale o internazionale definito ma si configurerà sempre più come uno scontro tra una visione strumentalizzata e secolarizzata della società e forme di quello che chiamo, per quanto non mi piaccia il termine, un nuovo umanismo. La lotta è tra una modernità arida e secolarizzatrice e una nuova centralità dell’individuo. Noi europei siamo abituati a parlare sempre di istituzioni, credo che dovremmo iniziare a parlare in termini di diritti umani in grado di travalicare i limiti degli stati sovrani, dovremmo tutelare un’idea di uguaglianza in un periodo di crescente uguaglianza. Questo sarebbe un atteggiamento davvero militante. Riassumendo, credo che siamo definitivamente oltre qualsiasi possibilità di riconciliare le istituzioni, o altre cornici simili, con le nuove conflittualità che emergono sullo scenario globale. Non siamo in grado di trovare, all’interno di questo sistema, soluzioni per una pacificazione. Ecco, non intravedo alcun modello di pacificazione all’orizzonte.

Questa conversazione ha avuto luogo nel maggio del 2010

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