Il risveglio della dignità araba
Lo scrittore Tahar Ben Jelloun parla con Alessandra Cardinale 7 aprile 2011

Il libro comincia con una domanda. Rivolta o Rivoluzione?

Non si tratta solo di una questione di parole, c’è una differenza. Una rivoluzione è qualcosa che viene pensata e organizzata negli anni, ha una struttura politica che la sorregge, un’ideologia che la anima. Non c’è nulla d’improvvisato nella rivoluzione. La rivolta – ed è il caso in questione – è una reazione spontanea, istintiva che con il passare del tempo può trasformarsi in rivoluzione. Quello che abbiamo visto in Tunisia, Egitto, Libia, ma anche negli stati più a Oriente, nel Mashreq, è stata una rivolta, una rivolta contro l’insostenibile.

Una rivolta morale e etica, scrive. Cosa intende?

Voglio dire che i manifestanti non chiedono riforme politiche precise, non chiedono il pane o il posto di lavoro. Vogliono la dignità e non vogliono essere più umiliati dai dittatori, reclamano che si proceda a un’igiene morale della società, chiedendo la fine della corruzione e la fine del potere arbitrario che autorizza il re di turno, Ben Ali, Mubarak o Gheddafi, chiamalo come vuoi, di arrestare la gente e farla sparire nel nulla come se non fosse mai esistita. La democrazia è una cultura che ha bisogno di tempo per essere capita e perché prenda piede: il primo passo è la pulizia morale.

È la dignità, dunque, quel “virus di origine non controllata” che ha infettato il popolo arabo?

Sì. È il risveglio della dignità che nessuno, né gli islamisti né gli uomini al potere, aveva previsto, per questo scrivo che è di origine non controllata. Nessuno avrebbe immaginato che dopo repressioni, ingiustizie, insulti, omicidi, un giorno all’improvviso Spartaco si sarebbe ribellato. La rivolta è poi diventata la lotta per la dignità o la morte.

I giovani in piazza sono i grandi protagonisti. Fanno parte di un movimento acefalo e senza bruciare bandiere israeliane o occidentali. Chi sono?

Sono giovani che non si sono fatti influenzare dagli islamisti, molti hanno vissuto negli Stati Uniti o in Europa, usano internet per comunicare e lottare. Poco tempo fa leggevo su Libération che un gruppo di giovani libici che studiano a Londra sono partiti per Tripoli per unirsi alla rivoluzione. È molto interessante. Questo movimento che non ha un leader ha però una forza tale da abbattere i partiti politici tradizionali e islamisti che per la prima volta nella loro storia stanno subendo una dura sconfitta.

Nelle manifestazioni politiche in Italia alcuni cartelli inneggiavano al coraggio del suo popolo. “Facciamo come loro, facciamo la rivoluzione”. La rivoluzione dei gelsomini diventa fonte d’ispirazione per l’Occidente. Sorpreso?

È straordinario. Ancor più se si pensa che l’onda rivoluzionaria sta mettendo in allerta e spaventa paesi lontani come la Cina che ora ha vietato la ricerca di due parole su internet: Tunisia e Egitto perché sinonimi di ribellione. Quello che sta succedendo in Nord Africa e altrove non scuote solo l’immaginario italiano, ma anche quello di altri paesi come la Francia.

A proposito di Francia. Che effetto le ha fatto vedere bandiere francesi e cori pro Sarkozy nelle strade libiche?

È un gesto simbolico: quando stai per annegare e il diavolo ti tende la mano che fai? La prendi. La Francia, per una volta però ha fatto una cosa buona. Il Colonnello non è un pazzo, sa quello che fa. È un uomo molto crudele e spero venga giudicato come Saddam. Essendo contro la pena di morte, non sto chiedendo la sua esecuzione ma chiedo che venga giudicato da un tribunale internazionale così da creare un precedente: il prossimo dittatore che salirà al potere saprà a quale rischio va incontro.

Dunque a favore dell’intervento in Libia?

Non intervenire significava lasciare un leone e un bebè chiusi in una gabbia. Cosa avrebbe fatto il leone? Lo avrebbe divorato. Se qualcuno sta uccidendo, centinaia, migliaia di cittadini con armi pesanti e l’uso di mercenari è necessario fermarlo.

Gheddafi, a differenza di Ben Ali e Mubarak, non molla. È diverso dagli altri dittatori?

Gheddafi è un caso speciale. Dal ’69, anno del colpo di stato, considera la Libia la sua casa, la sua proprietà, la sua tenda. Tutto. Non ha capito che la gente reclamava giustizia e dignità. Quando ho visitato la Libia ho potuto verificare che il Paese è totalmente bloccato, fermo dal 1969: Gheddafi non ha fatto nulla per la sua gente. È un criminale, terrorista, colpevole di centinaia di morti. La colpa è dell’Occidente che lo ha perdonato e che gli ha permesso di comprarsi l’innocenza con i soldi. Ha pagato miliardi, credo due miliardi di dollari per le vittime di Lockerbie, ha dato centinaia di dollari a ciascuna famiglia americana e la stessa cosa ha fatto con i francesi. Gli americani sono quelli che hanno fabbricato il Gheddafi di oggi.

Ultima domanda. Il giornalista Samir Kassir scriveva nel suo libro L’Infelicità araba “gli arabi possono riappropriarsi del proprio destino a patto di liberarsi della cultura del vittimismo”. Sta avvenendo questo?

Ricordiamo che Samir Kassir era un giornalista libanese ucciso, con ogni probabilità dai siriani, per le sue idee di libertà. Terribile. Kassir aveva ragione nel dire che per molto tempo i popoli arabi hanno continuato a dare la colpa al colonialismo e all’Occidente. Noi ora abbiamo i nostri dittatori. Bisogna dunque tornare su noi stessi per guardare quello che sta succedendo nel mondo arabo: perché quelli che ci fanno più male ora sono arabi.

L’intervista è stata pubblicata sul Fatto Quotidiano il 5 aprile 2011 a pag.11