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  • 26 maggio 2016
    La rivoluzione tunisina si è sviluppata con modalità diametralmente opposte rispetto ad altri stati coinvolti nelle primavere arabe. Diversi intellettuali tunisini intervistati da Reset-Doc analizzano i motivi che, malgrado le grandi difficoltà economiche e sociali, hanno portato questo paese a intraprendere un processo di democratizzazione pacifico e fortemente influenzato dall’azione della società civile alla quale nel 2015 è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace. 
  • Adnane Mokrani 9 febbraio 2016
    Quale è l’identità dello “Stato Islamico”? Può esistere una religiosità senza libertà? Ci risponde, Mokrani con una sua analisi politico storica della realtà dell’Islam, che ci mostra la strada verso una vera laicità.  
  • Samir Frangieh 20 agosto 2014
    “Penso che il fenomeno più importante al quale assistiamo oggi nel mondo arabo sia la riscoperta dell’autonomia personale,” spiega Samir Frangieh, intellettuale e uomo politico libanese. “Vale a dire: le persone sono coscienti che possono diventare artefici della propria storia. Questo è assolutamente nuovo in una regione in cui per decenni l’individuo è stato ridotto al gruppo, il gruppo è stato ridotto al partito che lo rappresenta e il partito che lo rappresenta è stato ridotto al capo che lo guida. Ci si è dunque ritrovati in questa situazione in cui un intero paese finiva per essere identificato in una persona, per esempio la Siria di Assad, in cui tutto il mondo arabo era catalogato con dieci nomi: tutto il mondo arabo, si tratta di 500 milioni di persone ridotte a dieci o quindici nomi. È questo che la primavera araba ha cambiato.” Abbiamo intervistato Samir Frangieh nel 2013.
  • Alfred Stepan, Columbia University (2/2) 21 luglio 2014
    Una delle democrazie più grandi del mondo è l’India, con i suoi “secolarismi molteplici”. Alfred Stepan, docente presso la Columbia University di New York, spiega che senza apertura e tolleranza nei confronti della religione, l’India non avrebbe mai potuto diventare una democrazia. Ma perché anche una democrazia come questa funzioni, fedeli e istituzioni religiose devono a loro volta rispettare i risultati dei processi democratici, nonché il diritto e l’autonomia delle istituzioni democratiche nel legiferare.
  • Alfred Stepan, Columbia University (1/2) 21 luglio 2014
    “Cosa chiedono le democrazie ai fedeli e alle istituzioni religiose? E, dall’altro lato, cosa è il minimo che i credenti possono legittimamente aspettarsi sa una democrazia?”. Lo abbiamo chiesto ad Alfred Stepan, professore presso la Columbia University di New York. “Perché la democrazia funzioni, spiega, credenti e istituzioni religiose devono rispettare e tollerare i risultati del processo democratico, nonché il diritto, anzi la sovranità delle istituzioni democratiche nello scrivere le leggi e garantire lo stato di diritto. Dall’altra parte, però – e questo è stato spesso sottovalutato – ci sono degli individui, dei cittadini: e se questi individui fossero profondamente religiosi? Quali diritti dovrebbero aspettarsi da democrazia?” La soluzione a queste domande potrebbe essere trovato in ciò che Stepan, in inglese, definisce “twin tolerations”, letteralmente “tolleranze gemelle”.
  • Amnon Raz-Krakotzkin 17 giugno 2014
    Amnon Raz-Krakotzkin, docente di Storia del Giudaismo all’Università Ben-Gurion del Negev, sostiene che Palestinesi ed ebrei hanno un tratto in comune: l’esilio e l’aspirazione al riconoscimento. Come possiamo definire i diritti collettivi israeliani a partire dal riconoscimento di quelli nazionali palestinesi? Glielo abbiamo chiesto durante i nostri Istanbul Seminars 2013
  • Karen Barkey, Columbia University 8 aprile 2014
    “Credo che sia un momento molto importante per riflettere sulla storia dell’Impero ottomano”, spiega Karen Barkey, sociologa e direttrice dell’Institute for Religion Culture and Public Life della Columbia University. “Il Medio oriente sta vivendo una transizione verso società più democratiche, e allo stesso tempo assistiamo alla crescita dell’islamismo e alla nascita di nuovi partiti politici si ispirazione islamica. Questo significa che tale transizione avviene precisamente in un momento in cui le persone cominciano a ripensare l’Islam nel contesto della democrazia. Molti guardano anche al proprio passato e ai modi tradizionali di comprendere l’Islam, per capire come impiegarlo nella società moderna. Per questo, si cerca di guardare agli elementi del passato ‘utilizzabili’ anche nel presente. A mio avviso, l’Impero ottomano è un passato ‘utilizzabile’ estremamente interessante perché – benché spesso descritto e spiegato come un impero islamico – di fatto era un impero nel quale la religione era equilibrata all’interno di rapporti ‘duali’ che le impedivano di diventare un fattore egemonico. È per questo motivo che proprio oggi l’esempio dell’Impero ottomano dovrebbe essere osservato meglio”. Abbiamo intervistato Karen Barkey durante i nostri Istanbul Seminars 2013.
  • Luigi Mascilli Migliorini, Università di Napoli 4 aprile 2014
    “Da storico penso che uno dei problemi che noi oggi abbiamo nella difficoltà di quello che chiamiamo ‘il dialogo tra culture’ nel Mediterraneo – naturalmente in particolare tra la sponda sud e la sponda nord – sia nel fatto che sono imprecisi i nostri vocabolari di partenza”, spiega Luigi Mascilli Migliorini, storico e professore presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. “Proprio per questo, in questo momento vorrei provare lavorare sulla costruzione di un sorta di una biblioteca condivisa: i nostri autori e i loro autori, le pagine che abbiamo letto noi e quelle che hanno letto i nostri a mici dall’altra parte del Mediterraneo…insomma, quali sono i dieci libri del Mediterraneo – per dirla in questa maniera – che consentono alla nostra discussione di oggi di essere una discussione nella quale capiamo, ciascuno di noi con l’altro, da quale punto stiamo partendo?” Abbiamo intervistato il Professor Migliorini durante i nostri Istanbul Seminars 2013.
  • Craig Calhoun, LSE 12 marzo 2014
    “Il modo in cui immaginiamo il mondo è estremamente importante, perché è il modo in cui noi stessi ‘creiamo’ la realtà in cui viviamo immaginandola. Il fenomeno dell’immaginario sociale non solo è alla base dei temi di cui parliamo, ma del nostro stesso modo di parlare, di pensare il mondo. Persone che vivono in una parte del mondo, come concettualizzano le altre parti del mondo? Pensiamo all’umanità come a un insieme di individui, oppure pensiamo anche al tipo di connessioni che creiamo? Nei nostri paesi, e anche nelle nostre città e nelle nostre famiglie, l’immaginario sociale è una forza che ci plasma anche prima di prendere decisioni coscienti sul nostro agire.” Come? Lo abbiamo chiesto a Craig Calhun, direttore della London School of Economics, durante i nostri Istanbul Seminars.
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