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  • Fabio Dei

    Si è sostenuto che questa è una caratteristica generale e fondante delle “nuove guerre”, i conflitti che segnano la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. I media e gli organismi politici internazionali hanno spesso visto nella componente etnica la causa di questi conflitti. La violenza trarrebbe origine, secondo questo punto di vista, da un antichissimo odio etnico o (come si dice per l’Africa) tribale; tenuto a freno da regimi politici forti, come quelli coloniali o il socialismo nella Jugoslavia, con il crollo di questi ultimi l’odio primordiale sarebbe nuovamente esploso con tutta la sua forza. Si tratterebbe dunque di cause pre-politiche e sostanzialmente irrazionali, radicate in irriducibili peculiarità antropologiche che ostacolano il pieno dispiegamento della razionalità politico-economica del mondo contemporaneo.

    Questa visione, tuttavia, appare per più versi ingenua e fuorviante. Prima di tutto, essa si basa su un concetto essenzialista di identità etnica. Suppone cioè l’esistenza di identità etniche antichissime o primordiali, che si darebbero prima e indipendentemente dai mutamenti storici e politici: un concetto che l’antropologia e le scienze sociali contemporanee hanno messo radicalmente in discussione, sostenendo piuttosto una natura processuale dell’identità. Quest’ultima viene costantemente prodotta e persino inventata da soggetti politici e in relazione a finalità politiche del presente. Il sentimento etnico, con gli elementi di chiusura e di reciproca avversione che possono accompagnarvisi, risulta allora più una conseguenza che una causa dei conflitti.

    O, meglio ancora, esso rappresenta spesso uno strumento ideologico mobilitato dai soggetti politici in competizione al fine di ottenere consenso. Anche qui, Ruanda e Balcani sono esempi chiarissimi. È stato ampiamente mostrato come Hutu e Tutsi, lontano dal rappresentare etnie primordiali, siano creazioni del dominio coloniale in Ruanda e Burundi; e come il loro attuale “odio atavico” sia il frutto di precise scelte politiche e di campagne di propaganda consapevolmente orchestrate. Per quanto riguarda la Jugoslavia, è stato palese l’uso strumentale delle categorie etniche e della memoria storica da parte dei nazionalismi serbo e croato, in funzione di sostegno ideologico e giustificazione morale delle proprie aggressive politiche e infine delle stesse pratiche genocide. In entrambi i casi, questa strategia ideologica ha influenzato in modo negativo gli stessi organismi internazionali, che se ne sono lasciati sviare: considerando pre-politiche le cause della violenza, hanno optato per una strategia di non intervento, legittimando come possibili mediatori proprio quei poteri che stavano all’origine dei conflitti.

    La nozione di violenza etnica è dunque di per sé ambigua. L’aggettivo “etnico” è fuorviante se rimanda ad appartenenze primordiali che quasi naturalmente e necessariamente si tradurrebbero in conflitti se non tenute sotto controllo da un forte potere centrale. L’antropologia, non immune da responsabilità per la visione essenzialista dell’etnicità, è oggi impegnata a “decostruirne” gli usi pubblici, cercando di svelare gli interessi politico-economici al di sotto delle ideologie identitarie. Questa critica, per quanto dovuta, non esaurisce tuttavia il problema. Il sentimento etnico non può infatti esser dismesso come pura ideologia imposta dall’alto. La sua diffusione e la sua straordinaria capacità di presa sugli attori sociali dev’essere compresa più a fondo. Gli studi (purtroppo finora assai rari) che hanno indagato la soggettività dei protagonisti delle violenze hanno mostrato un radicamento profondo del senso di appartenenza, una sua “incorporazione” in grado di plasmare a fondo l’esperienza fisica ed emozionale dei soggetti, non solo le loro “opinioni”.

    Del resto, le forme che la violenza cosiddetta etnica ha assunto – la sua capillarità, il suo insinuarsi all’interno della socialità quotidiana, la sistematica tendenza all’atrocità e a pratiche simboliche di mutilazione e umiliazione dei nemici – non sarebbero altrimenti comprensibili. Le identità e le relative ostilità possono ben essere inventate e promosse da stati, movimenti nazionalisti o autonomisti, gruppi di potere politico o religioso: si tratta però di vedere in che modo esse divengono caratteristiche costitutive dei soggetti sociali, producendo quella “furia incarnata” (come si esprime l’antropologo A. Appadurai) che rende possibili i massacri e le varie forme di pulizia etnica.

    Dunque, per capire la violenza etnica nel mondo attuale non basta né la tesi che la rimanda ad appartenenze e ad ostilità primordiali di carattere irrazionale e pre-politico, né quella che riduce il fattore etnico a puro supporto ideologico di strategie mosse da più strutturali interessi economico-politici. Nello spazio tra questi due contrapposti riduzionismi si muove la più recente ricerca antropologica, che ha tentato la difficile (e quasi paradossale) strada di un’etnografia delle prtiche di violenza e di una microanalisi della loro sintassi simbolica. Quelle che appaiono cieche esplosioni di furia omicida possono rivelarsi invece pratiche culturalmente plasmate e dense di significati sociali.

    Nella lettura di studiosi come L. Malkki o il già citato Appadurai, tali pratiche appaiono legate al complesso rapporto che lega stato, corpo e cultura nell’epoca della globalizzazione e della crisi degli stati-nazione. I massacri a colpi di machete o gli stupri etnici sarebbero una deformazione particolarmente mostruosa delle “discipline” che, in senso foucaultiano, fondano il rapporto tra individuo e potere nella modernità; sarebbero il colpo di coda dello stato moderno, in contesti in cui la sua base politico-culturale si va sgretolando. Per quanto controverse, tesi di questo tipo hanno il merito di mostrarci la violenza etnica non come un residuo o una spiacevole sopravvivenza pre-moderna, radicata in contesti ostinatamente locali, bensì come un prodotto della tarda modernità e delle dinamiche che siamo soliti chiamare globali.

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