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  • Anna Elisabetta Galeotti

    Il termine cittadinanza infatti non solo descrive l’appartenenza alla stessa unità politica, ma indica anche un profilo normativo di tale appartenenza. Cittadini sono coloro che non solo condividono un destino politico, ma che anche contribuiscono a forgiarlo, partecipando, direttamente o più spesso via rappresentanti, alla creazione delle leggi che sono poi tenuti a obbedire. Cittadini sono in altri termini co-autori del sistema politico che pertanto non può essere altro che un sistema democratico.

    Cittadinanza e democrazia sono termini coestensivi, tanto che l’ampiezza della cittadinanza entro uno stato definisce anche l’ampiezza della democrazia di quello stato. Se il numero dei cittadini, ossia di coloro che non solo sono sottoposti all’autorità della legge, ma contribuiscono a formarla grazie all’esercizio dei diritti politici, è ristretto rispetto agli abitanti dello stato, la democrazia risulterà parimenti limitata. Se solo i maschi adulti bianchi, cristiani, con una certa soglia di reddito e educazione sono titolari di diritti politici, attivi e passivi, ecco che tutte le altre categorie sociali (donne, poveri, ebrei, neri, stranieri) risultano “sudditi” rispetto alle leggi dello stato, sottoposti alle sue disposizioni ma senza voce nella formazione delle leggi.

    È così che la lunga storia dell’allargamento del suffragio nel corso del XIX e XX secolo è anche nota come la conquista della cittadinanza da parte di classi e gruppi che ne erano stati fin lì esclusi sulla base di ragioni diverse, in genere connesse all’identificazione del tipo ideale del cittadino con alcune caratteristiche e capacità proprie delle classi dominanti. Le lotte per il suffragio universale sono state quindi lotte per il compimento della democrazia basate sulla critica dei tratti ritenuti indispensabili corredi della cittadinanza. L’ampliamento della cittadinanza ha dovuto abbattere pregiudizi sulle pre-condizioni per poter definire qualcuno cittadino/a. Non il censo, non il livello di istruzione, non l’appartenenza religiosa, non il genere, non l’appartenenza razziale possono costituire ostacoli legittimi al riconoscimento di un appartenente alla comunità politica come cittadino, ossia titolare di diritti politici oltre che sottoposto all’obbligo politico.

    Se generalmente la cittadinanza è ascritta al vocabolario politico universalistico, come democrazia e liberalismo, tuttavia ha sempre conservato un margine di ambiguità in quanto è spesso e implicitamente riferita anche all’appartenenza nazionale. In questo senso, il concetto serve a demarcare un “noi” da un “loro” secondo le frontiere. Questa dimensione più particolaristica della cittadinanza è recentemente emersa nelle discussioni sull’immigrazione, da una parte, e sulla giustizia globale, dall’altra. All’interno delle democrazie gli immigrati sono gli unici soggetti privi di diritti politici, oltre ai minori. L’accesso alla cittadinanza del paese ospitante si rivela più o meno accidentato a seconda dell’apertura della democrazia di riferimento.

    La distinzione fra cittadinanza basata sullo ius sanguinis e sullo ius soli caratterizza concezioni della stessa più “particolariste” e nazionaliste da concezioni più politiche e universaliste. Analogamente, nei recenti studi sulla giustizia globale si possono identificare due posizioni principali, con numerose vie intermedie. Da una parte, c’è l’idea cosmopolita secondo la quale soggetti di giustizia sono gli individui, al di là delle contingenti condizioni di appartenenza politica, e dall’altra c’è l’idea secondo la quale solo coloro che condividono un destino di cittadinanza e sono co-autori delle leggi che poi devono obbedire sono i soggetti appropriati della giustizia. La cittadinanza è così riconosciuta la base indispensabile per l’attribuzione di diritti sociali, ma in questo modo diventa fattore di esclusione per i non cittadini e per chi sta fuori.

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