Albanesi, morti bianche, provincia. Il romanzo dell’Italia “minore”
Matteo Tacconi 30 novembre 2011

È una storia breve, di 158 pagine. Scorre via agevolmente. È una fotografia concisa e impegnata – “neorealista”, l’ha già definita qualcuno – di quell’Italia che fa poco notizia, sprofondata nell’oblio della provincia e sfiorata solo di striscio, se va bene, dalla fanfara mediatica. Giovanni Dozzini, con L’uomo che manca, romanzo pubblicato dall’editore romano Lantana, va controcorrente. Non intercetta né intende farlo gli attuali gusti “pilotati” del pubblico: inchiestismo, casta, corruzione, sprecopoli. Scelta apprezzabile, dunque. Dello scrittore e dell’editore.

Ma veniamo alla storia, che parte e finisce con una dei drammi silenziosi dell’Italia odierna – le morti bianche – e che ruota intorno all’incidente sul lavoro che coinvolge Altim Popi, immigrato albanese, scivolato da un’impalcatura in un cantiere di Nocera Umbra, piccola cittadina del perugino assurta alle cronache sul finire degli anni ’90, ai tempi del terremoto dell’Umbria e delle Marche. Anche in questo caso, viene da pensare, l’autore intende posizionarsi fuori dal coro, ambientando l’apertura e alcuni passaggi del suo lavoro in questo luogo dove la terra ha tremato e da dove la truppa giornalistica s’è ritirata rapidamente, una volta esauritasi l’urgenza mediatica.

Chiusa la parentesi torniamo al protagonista, Altim Popi. Alla vicenda sfortunata di un onesto manovale albanese venuto in Italia a cercare pane e lavoro. Alla moglie, Ionilda, che fa la cameriera a Nocera Umbra. Ai loro due figli, Dorian e Igli. Dorian sa parlare la lingua dei genitori, Igli galleggia tra la cultura della patria lontana e quella del paese che l’ha accolto, ponendosi i dubbi che attanagliano tutti gli immigrati di seconda generazione. Pagina dopo pagina prende forma una piccola saga familiare che immortala il percorso di una delle principali minoranze straniere in Italia, accolta con scetticismo e qualche buona dose di xenofobia all’epoca degli scafisti e degli sbarchi sulle coste pugliesi, ma riuscita a integrarsi progressivamente, grazie alla caparbietà, allo spirito d’adattamento, alla forza di volontà e alla capacità di tirare fuori muscoli e di tollerare sudore e fatica, senza sprecare troppo fiato in parole.

Succede, poi, che il lavoratore albanese finisce vittima di un incidente sul lavoro e allora ecco che la faccenda cambia registro, ecco che dall’integrazione si passa a una forma di discriminazione che, pur essendo diversa da quella di vent’anni fa, permane e si fonda sul silenzio, sull’indifferenza, su una tragedia di rango inferiore rispetto a quella che vedrebbe come vittima uno dei nostri, un italiano.

Intorno a Popi e alla sua famiglia si colloca una schiera di altri personaggi, che riflettono, agiscono, pensano, esitano. C’è Alessandro De Falco, il giovane avvocato che oscilla tra l’aggressività legale e la frustrazione causata dai deficit d’etica della sua professione; c’è Marta, la dottoressa che prova a salvare le vite, ma che si sente a volte impotente davanti al destino degli uomini e alle leggi della natura; c’è il capo di Alessandro, “l’avvocato”, con il suo cinismo.

Sullo sfondo una Nocera Umbra, percossa dal freddo e dall’anonimato, le vite e le morti dentro l’ospedale di Perugia, gli uomini della provincia, i cantieri e i rottami del terremoto, l’insicurezza sulle impalcature e le morti bianche come pasticcio brutto da denunciare. In questo libro c’è tutta quell’Italia minore, vale a dire, che le cronache hanno smesso di raccontare. Giovanni Dozzini, perugino, editor di saggistica e collaboratore dei quotidiani Europa e Corriere dell’Umbria, la ricuce con cura, strutturando ingegnosamente i capitoli di questo libro e muovendosi a suo agio nella sua Umbria, senza indulgere in barocchismi e sofisticatezze letterarie.