La Palestina e il sogno dell’indipendenza (energetica)
Mario Cucinella intervistato da Ernesto Pagano 12 aprile 2010

Un’iniziativa promossa dalla Cooperazione Italiana e finalizzata alla realizzazione di un edificio scolastico “modello” costruito secondo le più moderne tecniche di edilizia verde. Il contributo, come ammette lo stesso Cucinella, è piccolo, ma si tratta di “gettare un seme” per raggiungere un traguardo molto più ambizioso: “L’emancipazione della Palestina dalla dipendenza energetica da Israele”.

Architetto, quale contributo sarete in grado di offrire nell’immediato?

Per il momento ci siamo prefissati di dare il nostro sostegno sugli aspetti normativi legati alle buone pratiche del costruire, anche in funzione della questione energetica. Da questo punto di vista i palestinesi sono molto carenti. Nelle loro città si costruisce con i pochi mezzi e materiali a disposizione, ma a ritmi di crescita molto sostenuti, come quello della città di Ramallah, la cui popolazione è destinata a raddoppiare nei prossimi trent’anni.

Crescita che aumenterà i disagi dal punto di vista energetico…

Al momento la dipendenza energetica da Israele è del cento per cento. Quindi è importante dare indicazioni finalizzate all’autoproduzione energetica dei singoli e alla costruzione di una politica sull’energia solare. La Palestina è un Paese che, nonostante i suoi problemi, potrebbe trasformare il solare in un’opportunità.

Lei ha visitato anche il Ministero delle Costruzioni israeliano.

Ero curioso di capire come lavorano sul territorio e se seguono impostazioni di bioedilizia: ho scoperto che hanno un sistema molto strutturato. E’ tutto affidato a un grande ufficio urbanistico che si occupa praticamente di tutto il processo. La catena decisionale è tutta gestita dall’alto. Si tratta di una struttura quasi militare. E’ un metodo rigido e statalista che produce da un lato molta efficienza, ma dall’altro tanta monotonia. Stiamo parlando di insediamenti da 25.000 abitanti costruiti tutti allo stesso modo.

Mentre sul versante palestinese?

E’ tutto un po’ polverizzato e caotico. Si sente la totale mancanza di una visione urbanistica. Inoltre in Palestina è ancora in vigore un decreto secondo cui tutti gli edifici devono avere una finitura di pietra bianca. Per cui è da circa due secoli che costruiscono qualunque edificio con la pietra calcarea. Il risultato dal punto di vista dell’impatto visivo è quello di città molto omogenee, soprattutto se si parla di Cisgiordania.

Ha potuto visitare anche altri luoghi?

Avevamo previsto una visita a Gaza, ma a causa dell’uccisione di due soldati israeliani a fine marzo e della rappresaglia che è venuta dopo siamo stati costretti a rimandare agli inizi di giugno. Mentre al campo profughi di Shuafat, subito fuori Gerusalemme, ci siamo imbattuti in una situazione radicalmente diversa da quella della Cisgiordania. Si tratta di un quartiere di 22.000 abitanti edificato senza alcuna regola: un ammasso di cemento senza infrastrutture dove la gente vive segregata in un chilometro quadrato di spazio. E nonostante tutto si rimane colpiti da una forza della sopravvivenza che supera le condizioni inaccettabili della vita. Ci sono mercati, negozi, gente che ti accoglie in modo cordiale…

Tornando al progetto, quali segnali ha raccolto dai suoi interlocutori?

I rappresentati dell’Anp sono convinti che sia tempo di pensare alle politiche ambientali in vista della nascita di un vero e proprio stato palestinese. La classe dirigente palestinese sa perfettamente che lo sviluppo del paese è legato anche alle risorse energetiche. Da ambientalista trovo straordinaria l’idea che possa nascere un movimento in cui il futuro della Palestina possa andare verso un’autonomia energetica attraverso lo sviluppo delle energie rinnovabili. Anche gli studenti, che sono i nostri interlocutori privilegiati, hanno mostrato grande interesse nei confronti di queste tematiche.

Ma parlare di bioedilizia laddove spesso mancano le infrastrutture di base, non può risultare quantomeno prematuro?

E’ chiaro che se parliamo di città come Gaza c’è più bisogno di fognature che di energie rinnovabili. Ma confrontarsi con gli studenti universitari su una prospettiva così positiva è anche un modo creativo di rispondere ai problemi. E poi non è detto che il fattore ecologico e ambientale non sia un tema su cui lavorare fin dall’inizio.

Quali saranno allora le prossime tappe di questo percorso di cooperazione?

Vorremmo fare, se le condizioni ce lo permettono, dei workshop in collaborazione con varie università palestinesi a partire da settembre. A Gaza vorremmo realizzare un edificio pubblico coi materiali che troviamo sul territorio, che siano bottiglie di plastica, fango o lamiere. Perché il cambiamento è anche legato alla creatività e alla costruzione di un percorso di cultura. Spesso non c’è bisogno di grandi cose, ma di piccoli segni concreti.