La democrazia liberale nell’islam: Abdolkarim Soroush
Giancarlo Bosetti 13 giugno 2011

Abdolkarim Soroush, nato a Teheran nel 1945, studi scientifici a Londra, tornato in Iran con la rivoluzione khomeinista, è l’intellettuale musulmano che ha rappresentato, forse più di qualsiasi altro, le speranze di costruire una democrazia liberale nel contesto religioso musulmano. Queste speranze hanno avuto il loro momento più alto durante la presidenza di Khatami, al quale Soroush è stato molto vicino, al volgere del secolo e ad esse è seguita la delusione per il fallimento dei tentativi di innestare sugli esiti della rivoluzione del 1979 un nuovo inizio democratico. Oggi l’autore di Reason, Freedom and Democracy in Islam (Oxford University Press, 2000), che condivise da giovane l’esperienza della svolta da cui nacque la repubblica islamica, è uno dei più tenaci e radicali avversari di Khamenei e del Consiglio dei guardiani. Le sue difficoltà con il regime cominciarono ben presto, ma è stato dopo la vittoria elettorale di Ahmadinejad nel 2004 che la sua situazione nel paese si è fatta pericolosa, per lui come per tanti spiriti liberi, e gli è stato impedito di parlare in pubblico. Presto, per mettersi al sicuro, ha dovuto poi lasciare l’Iran, dove oggi lo stesso Khatami è costretto di fatto agli arresti domiciliari.

Il suo percorso accademico, di rilievo internazionale, che lo ha portato ad Harvard, Yale, Princeton e al Wissenschaftkolleg di Berlino si è trasformato in esilio permanente.

Per l’importanza della sua prospettiva religiosa riformistica è stato definito da molti giornalisti il «Lutero dell’Islam», il che forse si spiega con il fatto che nella tradizione sciita – a differenza che in quella sunnita – è incombente la presenza del clero e del suo potere mondano. Soroush è un teorico della libertà, dei diritti degli individui nei confronti dell’assolutismo ed è un critico della tradizione teologica che ha giustificato il potere attraverso la trascendenza, santificando così secoli di tirannia.

La libertà di Soroush ha anche un carattere religioso. Egli distingue tra una libertà interna e una libertà esterna: la prima riguarda la dimensione spirituale, intima, e consiste nell’emanciparsi dalle passioni e dall’ira, la seconda riguarda la dimensione politica e consiste nel liberarsi dal giogo dei potentati, dei despoti e dei ciarlatani. E in questa dimensione la sua concezione della democrazia è pluralistica, basata sulla libertà che consente l’esercizio della riflessione, della valutazione delle diverse tesi in campo, attraverso norme e regolamenti che garantiscano la possibilità di partecipare alla vita pubblica. Fred Dallmayr, che gli ha dedicato un saggio nel suo Dialogo tra le culture (I Libri di Reset, 2002, prefazione di Giuliano Amato) ha sottolineato come la sua idea di libertà e ricerca della verità siano collegate da una concezione della ragione come riflessività analitica, come capacità critica rivolta alle concezioni olistiche e alle metafisiche tradizionali; significativamente Soroush sostiene che l’odio per la ragione cresce sotto le dittature e che i fascisti «trovarono un amico nelle passioni giovanili e un nemico nella razionalità della maturità».

«Partendo da fonti sia occidentali che islamiche, Soroush ha gettato le basi per il pluralismo islamico sfidando la tesi di Khomeini secondo cui Dio avrebbe dato ai mullah il diritto di governare», ha scritto nel 2005 la rivista americana Time, che lo ha incluso nella sua lista delle 100 persone più influenti al mondo.

Soroush si oppone al potere del clero perché, essendo la religione destinata a essere interpretata dall’uomo, è inevitabilmente aperta a interpretazioni assolutamente divergenti. A partire dall’11 settembre, i suoi scritti sono stati essenziali per il dibattito globale sulla compatibilità tra Islam e democrazia.

E tuttavia non rinuncia a una sua declinazione della «democrazia religiosa», che dentro il perimetro pluralista di una piena libertà di critica e in un quadro certamente «secolare» con tratti «postmoderni», tenendo ferma la distinzione tra società civile e poteri di governo, si misuri con il problema che «la democrazia non può prosperare senza affidarsi a fattori coesivi di moralità: rispetto della volontà della maggioranza e i diritti degli altri, la giustizia, la compassione e la fiducia reciproca». Una posizione che sembra echeggiare le obiezioni di natura cristiana (alla Böckenförde) alla insufficienza di uno stato liberale perfettamente neutro e indifferente sul piano morale rispetto alle diverse concezioni del bene.