Daghestan, violenza senza fine
Matteo Tacconi 29 maggio 2012

Domenica 20 maggio. Le forze di sicurezza del Daghestan, repubblica caucasica della Federazione russa, a maggioranza islamica, uccidono Aslan Mamedov. È il terzo uomo nella gerarchia dei gruppi ribelli, ispirati dal radicalismo wahabita e da obiettivi separatisti, che operano in questo fazzoletto di terra. Dieci giorni prima, nel corso di un’altra operazione anti-guerriglia, muore lo sceicco Muhammad Didoiski, incitatore della jihad. I suoi discorsi infuocati venivano costantemente pubblicati sui siti internet gestiti dagli insorti.

Il 4 maggio un kamikaze si fa esplodere, a bordo di un’auto, davanti a un posto di blocco della polizia alla periferia di Makhachkala, capitale del Daghestan. Perdono la vita almeno venti persone e una trentina rimangono ferite.

Il 23 marzo Gitinomagomed Abdulgapurov, membro del clero ufficiale di rito shafii, praticato dalla maggioranza della popolazione, cade vittima di un attentato. Era l’imam della principale moschea della città di Buinaksk e il sospetto è che a ucciderlo siano stati i ribelli. Il delitto Abdulgapurov non è un caso isolato. Dal dicembre del 2010 quattro esponenti del clero ufficiale, appoggiato da Mosca e schierato contro i wahabiti, sono stati assassinati. Uno è Kurman Islailov, vice mufti di Stavropol. Il 13 febbraio l’auto a bordo della quale stava viaggiando è saltata in aria.

Queste sono soltanto alcune delle ultime notizie che arrivano dalla repubblica del Daghestan. La più turbolenta del Caucaso russo, ormai. Secondo gli analisti ha superato persino Cecenia e Inguscezia, quanto a tasso di instabilità e violenza. Gli scontri tra forze di sicurezza e ribelli, gli assassini politici e gli attentati terroristici sono all’ordine del giorno.

Ma come si è arrivati a questo punto? Per capire il Daghestan odierno serve fare un balzo all’indietro nel tempo. Il movimento islamico radicale, a Makhachkala, non è cosa nuova. Era presente già dai primi anni Novanta del secolo scorso, quando il wahabismo militante iniziò a diffondersi, a fare i primi proseliti e a darsi una struttura. Risale a questo periodo la nascita della Shariat Jamaat, gruppo armato che in origine puntava a espandere l’influenza del radicalismo, senza tuttavia arrivare a rivendicare la secessione da Mosca.

Le guerre nella vicina Cecenia e i frequenti contatti con i ribelli di Grozny, facilitati dai confini porosi che separano le due repubbliche, determinarono sul finire di quella decade l’affermazione dell’opzione indipendentista. Parallelamente crebbe il numero dei simpatizzanti e dei miliziani. L’organizzazione, così, alzò la posta della sfida lanciata già dall’atto della fondazione nei confronti delle autorità locali e del clero di rito shafii.

Tempo qualche anno, qualche attentato e qualche durissima rappresaglia russa e si è giunti a un clima maledettamente pesante. Quattro anni fa l’International Crisis Group, prestigioso think tank con sede a Bruxelles, descriveva la situazione scomodando il concetto di street warfare e metteva in guardia sulla possibilità che la questione daghestana potesse tracimare.

Detto, fatto. Ultimamente s’è assistito a una escalation costante, quasi inarrestabile, della violenza islamista. Una delle ragioni risiede nel fatto che il trasferimento di risorse economiche e securitarie operato da Mosca in Cecenia ha reso la situazione a Grozny più sotto controllo, determinando lo spostamento del baricentro delle guerriglie caucasiche, che nel frattempo si sono federate sotto l’egida dell’Emirato del Caucaso. Si tratta di una terra virtuale che, in nome della nascita di un’unica patria islamica amministrata sulla base della sharia, abbraccia tutti i soggetti territoriali e tutte le repubbliche (Cecenia, Daghestan, Ossezia del Nord e Kabardino-Balkaria) di quest’angolo di Russia.

La Shariat Jamaat, tra le cellule che compongono tale entità combattente, è forse quella che risulta attualmente più attrezzata sul fronte delle capacità militari e che gode del sostegno sociale più robusto. Come ha in più occasioni spiegato l’Eurasia Daily Monitor, pubblicazione collegata alla Jamestown Foundation, sempre ottimamente informata sull’area, nel corso degli anni il perimetro del consenso s’è progressivamente allargato. La povertà, l’assenza di prospettive e la gestione nepotistica e corrotta del potere da parte delle autorità fedeli a Mosca hanno portato sempre più persone a sostenere le rivendicazioni della Shariat Jamaat e un numero importante di giovani – i più emarginati di tutti – a entrare nella guerriglia.

Mosca si trova davanti a un nemico molto forte. Il Cremlino pratica una tattica bifronte. Da una parte continua a muovere guerra ai ribelli daghestani, rafforzando la presenza militare sul campo (25mila i nuovi militari da poco inviati in Daghestan), organizzando retate e operazioni anti-guerriglia, non senza colpire troppo spesso indistintamente nel mucchio, come denunciano gli attivisti dei diritti umani. Dall’altra, attraverso il rafforzamento delle istituzioni civili e religiose locali, unito a qualche concessione alla popolazione (i giovani daghestani sono esonerati dalla leva nell’esercito federale), cerca di ribaltare il quadro replicando a Makhachkala uno schema di “pacificazione” già dispiegato a Grozny.

I frutti non sembrano maturare. Anzi, lo scenario sta peggiorando rapidamente. Tanto che secondo alcuni analisti, come spiegava qualche settimana fa Giovanni Bensi, ex redattore di Radio Free Europe, firma di Avvenire e di East Journal (www.eastjournal.net), potrebbe addirittura scoppiare una vera e propria guerra guerreggiata. Vladimir Putin, appena rieletto presidente della Federazione russa, rischia, dopo la Cecenia, di imbarcarsi in un altro conflitto caucasico.