Perché l’Europa deve tornare a riflettere
Stefano Allievi 1 agosto 2011

La strage di Oslo e dell’isola di Utoya, compiuta il 22 luglio dal killer solitario Anders Behring Breivik, al di là dell’approfondimento degli elementi di cronaca, pur importanti, e del bisogno di sedimentazione ulteriore, che richiederà tempo per essere ruminata adeguatamente, si presta fin d’ora ad alcune considerazioni.

La prima è d’obbligo. Tutti, all’inizio, avevano pensato ad un attentato di matrice islamica. Questo automatismo fa riflettere. Gli attentati condotti e gli atti di violenza perpetrati da fanatici islamici, in Europa, sono una percentuale infima degli attentati, delle bombe, delle stragi e degli assassinii compiuti, come ci confermano ogni anno i dati dell’Europol. Ad esempio, secondo il rapporto 2010, gli attentati terroristici in Europa sono stati 294 (con un calo netto rispetto al 2008, a sua volta in calo rispetto al 2007), di cui 237 di matrice separatista, 40 di estrema sinistra, 4 di estrema destra, 2 single issued (cioè legati a una causa specifica locale), 10 non specificati, e solo 1 (in Italia) di matrice islamica. Nonostante questo gli arresti per terrorismo sono stati nello stesso anno 587, di cui 413 di separatisti, 29 di militanti di estrema sinistra, 22 di estrema destra, 2 di terroristi single issue, 11 non specificati, e ben 110 di islamisti. Ugualmente le persone in carcere per reati di terrorismo erano 408, di cui 268 separatisti, 39 militanti di estrema sinistra, 1 di estrema destra, 11 non specificati, e 89 islamisti [1]. I dati si possono leggere in vari modi: considerando la sproporzione tra arrestati e carcerati islamisti rispetto agli attentati avvenuti ad opera di musulmani come un segno di efficace prevenzione (il dato è reale, e frutto della maggiore vigilanza rispetto a questo tipo di terrorismo: diversi attentati in vari paesi sono stati effettivamente sventati, e in luoghi dove potevano produrre molte vittime, come aeroporti e altri luoghi pubblici), ma anche come un segno di attenzione selettiva e di maggiore nervosismo rispetto a questo tipo di terrorismo (e magari di sottovalutazione di altri: col senno di poi, col senno di Oslo potremmo dire, certamente di quello di estrema destra).

Questo meccanismo che non è solo mediatico, anche se i media ne sono un amplificatore e una cassa di risonanza fenomenali, deve farci riflettere seriamente: ma non sulla presenza islamica in Europa – su di noi, Europei di nascita (senza dimenticare che vi sono Europei sia di nascita che di adozione che sono musulmani), e sul nostro atteggiamento nei confronti dell’islam e dei musulmani [2]. Perché è il frutto di una campagna di lungo periodo, che precede persino l’11 settembre 2001, e che mostra di essere molto efficace e pervasiva. La campagna della Lega contro le moschee, in Italia, comincia nel 2000 [3], e prima ancora è nata l’islamofobia prodotta dal Front National in Francia e da altri attori politici di vari paesi [4]: questo, tanto per chiarire che non si tratta di una risposta alla violenza islamica nei confronti dell’occidente, ma di qualcosa di più profondo e di più antico.

Questo riflesso pavloviano, dal quale sembra non si riesca ad uscire, nonostante le frequenti smentite (con il rischio di un attentato islamico che poi non avviene si aprono regolarmente i telegiornali in occasione di qualsiasi grande evento: olimpiadi, G8, Giubileo o quant’altro) e le occasionali conferme, non produce mai una messa in discussione, una riflessione, una richiesta di approfondimento autocritico, ad esempio all’interno del mondo giornalistico, che questo allarme diffonde, o in quello dei servizi di intelligence, che spesso contribuiscono a produrlo: va detto che il gridare al lupo islamico è mestiere che ha consentito fenomenali e ben retribuite carriere, nel giornalismo, tra le forze di sicurezza, in magistratura, e naturalmente in politica. Meno che mai si ricorda una qualche scusa a posteriori nei confronti dei musulmani, meglio ancora se pubblica. Eppure non si tratta di un meccanismo senza conseguenze e senza danni sulle vite di migliaia di musulmani che poi divengono l’occasionale bersaglio, se non necessariamente di violenze, certamente di rifiuto, di polemica, di ordinario harassing quotidiano, a scuola, nel mondo del lavoro, per strada.

È significativo il sospiro di sollievo tirato da tutte le comunità musulmane in Europa, nello scoprire che non era stato uno dei loro: perché si sapeva già quale tremendo prezzo si sarebbe pagato altrimenti. Ma è significativo anche il sospiro di sollievo di molti non musulmani, nel non dover confermare un pregiudizio che, così come viene comunemente formulato, porta dritto verso lo scontro di civiltà, che in questo caso, più che un fatto o anche solo una possibilità, è semplicemente una profezia che si autorealizza: ancora più inquietante, nella sua banalità e nel suo automatismo, proprio per questo. È un qualcosa che la stampa dei paesi musulmani, dopo Oslo, comincia a ricordarci: perché questo non lo chiamate terrorismo cristiano? Perché non ci costruite sopra una teoria del complotto? E non si può dire che l’argomentazione sia del tutto fuorviante.

La seconda riflessione da fare è invece sulla violenza interna all’Europa, che stiamo producendo e che sta emergendo in questi anni. Il timore del pericolo islamico ha prodotto un verminaio assai affollato di partiti, gruppi, siti, giornali, scrittori, intellettuali maggiori e minori, che competono nel facile e produttivo mercato dell’islamofobia un tanto al chilo. È il verminaio in cui ha attinto a piene mani l’assassino di Oslo, ricavandone la sua personalissima sintesi e la sua tragica conclusione. Non a caso molti di questi riferimenti li cita nel suo memoriale: ed è significativo che la vulgata xenofoba e islamofoba che ha riprodotto abbia già i suoi temi ricorrenti e alquanto ripetitivi, ma penetranti, diffusi, efficaci. Parole d’ordine, peculiarità interpretative, riferimenti valoriali, e anche precisi richiami linguistici: come il chiamare l’Europa Eurabia, neologismo inventato da Bat Ye’or ma portato al successo da Oriana Fallaci, pure essa, tra gli altri, citata [5].

È chiaro che non sarebbe né corretto né intelligente far ricadere sui suoi riferimenti intellettuali le colpe e le conseguenze delle azioni di Breivik: l’operazione è pericolosa e assai scivolosa sempre. Tuttavia non si può ignorare che esistono sul tema sia dei cattivi maestri (sì, proprio nel senso che si usava, a suo tempo e per altri ambienti politici, per Toni Negri ed altri) sia terribili praticanti e spesso solo praticoni, specie sul terreno politico, a cui tuttavia si concede, nel dibattito pubblico e sui media, uno spazio sproporzionato e senza contraddittorio, e soprattutto un linguaggio che non si concederebbe ad altri né soprattutto nei confronti di altri [6]. Vale la pena di ricordare che in molti discorsi politici, in troppi articoli di giornale, e persino in non rare esternazioni di responsabili religiosi, se sostituissimo la parola ‘musulmano’ con la parola ‘ebreo’ le stesse frasi verrebbero considerate semplicemente indicibili. La crescita dei partiti xenofobi e islamofobi in tutta Europa è lì a dimostrare che non si tratta solamente di un problema di bon ton. Certo, i musulmani, anche quelli europei, hanno le loro responsabilità nel prodursi di questo clima. Troppe incomprensioni, troppe scorciatoie, troppe leggerezze, troppi errori non meditati, troppo poco dibattito interno, e naturalmente qualche atto di violenza inaccettabile di troppo. Ma è il caso che, tutti, si cominci a riflettere seriamente su dove tutto ciò ci sta portando.

[1]Per chi vuole controllare di persona, il link, assai poco frequentato da giornalisti e sedicenti esperti di islam, è il seguente: https://www.europol.europa.eu/content/publication/te-sat-2010-eu-terrorism-situation-trend-report-671 (si vedano in particolare le pagg. 10-11 e gli approfondimenti sul terrorismo islamico, non a caso quello di cui si parla per primo, da pag. 18 in avanti).

[2]Su cui si veda S. Allievi, Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Forum, 2007.

[3] Il ‘settembre nero’ dell’islam italiano è quello appunto del 2000, quando il kulturkampf anti-islamico si manifesta in vari ambiti: con la pubblicazione e la favorevole accoglienza e diffusione di un saggio del politologo Giovanni Sartori, intitolato Pluralismo, multiculturalismo e estranei, zeppo di inesattezze, incongruenze e strafalcioni, ma di grande successo; con la lettera pastorale dell’allora cardinale di Bologna Giacomo Biffi, ugualmente diffusa e dibattuta, in ambito cattolico, che ha dato la voce ad una peculiare forma cattolica di islamofobia, fino ad allora silente; e appunto con la campagna politica della Lega, iniziata con il caso della moschea di Lodi e da allora mai conclusa, e anzi in continua evoluzione (sul caso italiano si vedano i miei Islam italiano, Einaudi, 2003, e I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009).

[4]V. Geisser, La nouvelle islamophobie, La Découverte, 2003; M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Laterza, 2006; C. Allen, Islamophobia, Ashgate, 2010.

[5]Su cui G. Bosetti, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, Marsilio, 2005, e S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione, Emi, 2004, nonché Niente di personale signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Aliberti, 2006.

[6]Paradigmatico ma tutt’altro che isolato il caso dell’europarlamentare leghista Borghezio, che solo questa volta è stato bonariamente sospeso per tre mesi dal partito, per aver dichiarato lo sproposito indicibile che, certo, i metodi no, ma le ragioni e del motivazioni del massacratore di Oslo erano del tutto condivisibili. Il parlamentare suddetto è un dichiarazionista professionale sul tema (non fa praticamente altro, del resto), campione di preferenze per questo motivo, eroe della base leghista assai festeggiato a Pontida, e mai in passato invitato a un linguaggio più sobrio, se non ad argomentazioni più serie.