«Senza sentire, abbiamo composto musica. Deprivati della lingua, abbiamo cantato. Ammanettati, abbiamo scritto poesie. Con le gambe incatenate, abbiamo ballato». Le parole dello scrittore Fakhar Zaman, che introducono il racconto di come «nonostante i talebani, i giovani pakistani amano il rock», coglie bene la contraddizione di un paese che alterna tradizione e modernità, pulsioni repressive e voglia di libertà, vivacità intellettuale e restrizioni imposte dal fondamentalismo in tutti gli aspetti della vita, dalla battaglia contro i jeans alla violazione dei diritti delle donne, dalla chiusura verso la musica alle imposizioni politiche su un paese dove i riformatori vengono assassinati e chi non si conforma ai diktat degli estremisti viene perseguitato.
Il racconto che la giornalista e scrittrice italo-marocchina Anna Mahjar-Barducci fa del Pakistan, dove ha vissuto a lungo, nel libro “Pakistan Express. Vivere e cucinare all’ombra dei talebani” (Lindau 2011) è una serie di fotografie narrative, di quadri che restituiscono scene di vita quotidiana intrecciate con i riferimenti alla storia e all’attualità politica del paese, con un tratto leggero e attento ai particolari e ai sapori. La scrittrice racconta episodi della sua vita in Pakistan, dove ha trascorso parte della giovinezza: i mercati del paese dove si andava accompagnate e vestite non con i jeans ma con lo shalwar kameez, l’abito tradizionale pakistano composto da pantaloni larghi, tunica e chador; le donne che lottano per il riconoscimento dei loro diritti e quelle che si arruolano nel fondamentalismo; il negoziante di oggetti militari che era stato militare nazionalista e l’incontro con un intellettuale liberale e progressista; i “party proibiti” fra alcol e hashish dei giovani agiati e l’amica Sameera che va in sposa a un cugino mai visto.
Il racconto è attraversato dagli aromi della cucina pakistana, che vengono costantemente richiamati durante la narrazione quasi fossero una punteggiatura ideale che permette di rendere più vivido il racconto – «la cucina pakistana è infatti una delle più raffinate che abbia mai gustato, ricca di colori intensi come il giallo della curcuma e di elementi decorativi come le foglie di coriandolo». Ed è intervallato dalle ricette di alcuni piatti tradizionali, con i quali la scrittrice cerca di restituire l’aroma in cui si svolgevano le storie che racconta. Ricette dove ci sono cannella e cardamomo, zenzero e chiodi di garofano, coriandolo e curry e cumino e i ricchi tè, la bevanda nazionale che è anche simbolo di ospitalità, e la carne speziata e i samosa di verdure che accompagnano una serata con gli amici davanti alla televisione guardando parodie dei talebani.
La storia parte ad Abbottabad, cittadina pakistana diventata famosa in tutto il mondo perché lì è stato trovato e ucciso Osama Bin Laden. Scrive l’autrice: «Bin Laden viveva ad Abbottabad ormai da vari anni e abitava in una casa nella vallata di Kakul. Quella era esattamente la zona dove ero vissuta con la mia famiglia e dove ho continuato a tornare per ritrovare gli amici più cari». Ecco dunque tornare alla mente i ricordi dei giorni passati nella cittadina, prima a malapena tracciata sulle mappe e ora famosa in tutto il mondo. Da lì si dispiega il Pakistan vissuto dalla protagonista e le sue contraddizioni di paese dove i giovani amano il rock nonostante i talebani, si fanno ricchi party privati nonostante le restrizioni, le donne combattono per i diritti delle donne (come l’attivista Fatma, che fuma e inveisce contro i fondamentalisti e riconosce che «non possiamo rimanere in silenzio») ma alcune scelgono invece di arruolarsi nelle fila dell’estremismo religioso svolgendo «una sorta di servizio di vigilanza sulla moralità dei costumi». Il paese dove «una delle più grandi star pakistane è una drag queen» anche se i transgender vivono ai margini della società.
Il racconto torna e si chiude ad Abbottabad con un messaggio di speranza: la storia di Tufail, appassionato di cucina, emigrato in Inghilterra, che torna nella cittadina per aprire un ristorante. Un progetto che, mentre sta ristrutturando il futuro locale, diventa subito oggetto di intimidazioni da parte degli integralisti. Ma il giovane cuoco non rinuncia e il giorno dell’inaugurazione, nel discorso d’inaugurazione, parla così: «Qualcuno non voleva che aprissi questo ristorante. Forse perché troppo occidentale, forse perché qualcuno vorrebbe che questo paese regredisse invece di migliorare. Forse perché c’è qualcuno che vuole allontanarci dai piaceri». E prosegue: «Credo però sia un dovere civile di ognuno di noi non arrendersi, non lasciare che il nostro paese, il nostro quartiere, i nostri amici vengano risucchiati da questa mentalità dell’odio. Yeh Hum Naheen».
Significa “questi non siamo noi”, da una canzone contro il terrorismo. Semmai ci fosse bisogno di ricordare che mettere le etichette a un intero popolo è sbagliato, ricorda a tutti che la realtà è sempre più sfaccettata e complessa delle semplificazioni che dividono i buoni dai cattivi, i paesi “canaglia” da quelli “amici”. La conoscenza passa anche dalla cucina, e la cucina è per definizione luogo d’incontro, di comunicazione, di empatia.