«Il mio unico crimine? Aver indossato un pantalone»
In un libro l'odissea di Lubna, giornalista sudanese 17 marzo 2010

E’ venerdi 3 luglio 2009. Giorno di riposo settimanale in Sudan come in molti altri paesi musulmani. L’oramai ex-giornalista Lubna Ahmad Al-Hussein decide di andare a cenare in uno dei ristoranti più alla moda di Karthum. Il posto è frequentato da giornalisti, intellettuali. Lubna prende posto nel ristorante. Chiacchiera, ascolta la musica. Improvvisamente la polizia fa irruzione. I poliziotti individuano una serie di donne sedute ai tavoli. Intimano loro di alzarsi e di fare tre passi verso la sala: indossano pantaloni, dunque stanno infrangendo l’articolo 152 del codice penale sudanese. Quindici donne, tra cui Lubna, vengono messe faccia al muro. Poi scortate fuori dal ristorante dove una folla si è formata per vedere da vicino le fuorilegge. Vengono caricate su una camionetta come volgari criminali, picchiate durante il tragitto e portate in prigione. I loro cellulari confiscati. Qui inizia un’inchiesta nel cuore di uno dei paesi più integralisti di tutto il mondo arabo-musulmano, inchiesta che Lubna Ahmed al-Hussein affida alla pagine del suo libro “40 frustate per un pantalone”, edito in Francia da Plon. Il libro si apre con un incipit memorabile: “Non sono stata arrestata, giudicata e condannata perché giornalista. Neanche per il fatto che la mia penna mi dà qualche notorietà in Sudan. La mia storia non è la mia. E’ quella delle centinaia, migliaia di donne che sono frustate ogni giorno, ogni mese, ogni anno dai nostri sinistri tribunali dell’ordine pubblico dopo una sentenza senza appello. Io sono colpevole di un crimine: ho indossato un pantalone”.

L’inchiesta vera inizia in prigione, dove Lubna incontra altre vittime, tra cui una donna che indossa un niqab integrale. Cosa avrà mai fatto contro la morale pubblica se è coperta da capo a piedi? Gli risponde un poliziotto, che sputacchia quando parla. “E’ una prostituta”. Prostituta? “Rincasava troppo tardi”. In realtà si era protratta troppo a lungo nel negozio di alimentari all’angolo…Adesso la sua vita è finita. Condannata, non avrà diritto neanche ad un processo e nel suo casellario giudiziale apparirà la scritta in rosso: “Prostituta”. La cellula speciale dove Lubna e le altre quattordici vengono rinchiuse fu creata nel 1990 appositamente per le donne ree di aver commesso reati contro la morale pubblica. Il luogo è noto come il “commissariato dell’ordine pubblico”. Un posto lugubre, dove ogni giorno si ritrovano rinchiuse centinaia di donne. I motivi? Un velo un po’ troppo disinvolto, abiti troppo discinti che mostrano la parte alta delle caviglie, essere state sorprese a chiacchierare da sole in pubblico con un uomo. La peculiarità dell’articolo 152 del codice penale sudanese, nota Lubna, è quella di essere ambiguo anche sulla definizione di cosa sia “indecente” dal punto di vista della moralità pubblica. Ragion per cui nessuna donna sudanese quando esce di casa può esser certa di non stare infrangendo qualche legge e di poter rincasare tranquillamente senza dover prima passare al “commissariato”. “Invece d’investire nelle scuole, negli ospedali, lo Stato sudanese preferisce sovvenzionare un servizio d’ordine, delle unità di polizia, dei tribunali per ‘vegliare’ al nostro pudore. Lugubre commedia”, commenta amara Lubna.

Tra le vittime anche ragazzine che vengono dalle zone tribali del Sud, a maggioranza africana, lì dove uomini e donne vivono ancora seminudi sotto capanne di paglia e legno. Nessuno ha raccontato loro come si vive sotto la sharia, introdotta nel 1983. Per alcune, dal momento dell’arresto, inizia un vero e proprio calvario. Vengono condotte in ospedale dove subiscono un esame della verginità e poi in tribunale dove inizia la farsa. Un giudice islamico ripete ad alta voce l’accusa davanti a due avvocati e all’imputato: “Lei ha infranto l’articolo 152 del codice penale indossando un pantalone. Riconosce i fatti? Se li riconosce e promette di non essere recidiva sarà punita con dieci frustate. Altrimenti se si ostina a negare i fatti le frustate saranno quaranta”. Le fruste sono fatte con cuoio d’ippopotamo, “più duro dell’acciaio”, nota Lubna. Una dopo l’altra, quattordici donne passano in rassegna davanti al giudice. Con un nodo in gola, tutte ammettono i fatti. Tutte, tranne Lubna. Neanche il tempo di pronunciare l’accusa, il giudice viene messo al corrente dall’avvocato difensore del suo statuto speciale. Lubna infatti lavora presso la missione diplomatica dell’Onu (perché le hanno impedito di fare la giornalista).

Secondo il Sofa, accordo firmato tra l’Onu ed il Sudan nel 2005, il personale dell’Onu gode di una protezione speciale e qualsivoglia infrazione di un membro del personale deve essere prima segnalata alla missione. Il processo è rimandato al giorno seguente. Viene incaricata una donna che poi viene inspiegabilmente rimossa. Lubna chiede chiarimenti. “Una donna non può occuparsi di questo caso”, le fanno notare in tribunale. Il caso passa magicamente nelle mani del poliziotto che l’aveva fatta arrestare qualche giorno prima, il quale, in barba al Sofa, decide di fare una “controinchiesta” sperando di ottenere la “confessione” di Lubna. Il poliziotto le fa notare che indossando i pantaloni ha infranto l’articolo 152. Lubna risponde: “Allora l’hanno infranto anche tutti gli uomini che li portano, compresi i poliziotti”. Si apre un botta e risposta tra il giudice e l’imputata, che si difende brillantemente e capovolge le argomentazioni e lo zelo del giudice islamico. “Anche se fai parte del personale dell’Onu non sfuggirai al processo” minaccia il giudice. “Io non sfuggo ma mi batto contro una legge incostituzionale”, risponde Lubna, che il processo lo vuole, eccome. Il processo infatti è l’unico modo che le resta per battersi contro una legge iniqua di cui sono vittime migliaia di donne del Sudan.

Uscendo dall’aula di tribunale Lubna decide di passare al contrattacco. Entra in una tipografia e fa stampare 500 inviti per assistere al suo processo e alla sua flagellazione pubblica. Si reca nelle redazioni dei principali quotidiani e riviste consegnando gli inviti di persona a redattori e giornalisti e raccontando brevemente la sua vicenda. Entra anche nei ministeri e addirittura fa rimettere due inviti, uno per Omar El-Bashir in persona e l’altro per il suo addetto stampa. Poi invita anche i corrispondenti delle televisioni satellitari arabe. Tornando a casa fa uno scan dell’invito e dell’articolo 152 del codice penale e lo spedisce via mail a tutti i suoi contatti. Il tam tam comincia. Un importante sito sudanese pubblica un pezzo sulla faccenda. Poi è la volta della Rete Araba d’informazione sui diritti umani (AHNRI) che in arabo ed in inglese denuncia l’arresto della giornalista. Quella notte Lubna viene svegliata da una telefonata. E’ la BBC che le chiede un’intervista.

Il caso diviene in poche ore mediatico e sfugge al controllo delle autorità sudanesi. Inizia una mobilitazione internazionale, e anche Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, interviene in favore della sua liberazione. Durante un incontro con Mubarak, Omar El-Bashir fa sapere di essere pronto a offrire alla giornalista la grazia presidenziale. Un provvedimento solenne e spropositato che ovviamente Lubna non accetta. “Non sono colpevole di nulla, solo di aver indossato un pantalone!”. Intanto insorgono le associazioni di difesa dei diritti delle donne, i movimenti di opposizione a El-Bashir, la stampa imbavagliata, tutti si allineano compatti dietro la coraggiosa giornalista, la sola che abbia avuto il coraggio di sfidare apertamente la dittatura della sharia ed il governo dispotico di El-Bashir. Di li a poco viene imprigionata, ma ne approfitta per fare un reportage sulla condizione delle donne nelle prigioni del Sudan dove lei già è diventata un’icona. Lubna sa che ha vinto una battaglia e non la guerra. Riceve svariate minacce, personaggi strani passeggiano di notte sotto il suo balcone. Lubna sa che basta che quattro uomini giurino davanti ad un giudice di averla vista nuda con un uomo per essere lapidata. In Sudan la vita delle donne non vale molto. E quella di Lubna, in special modo, resta ancora oggi appesa ad un filo.

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