Seyla Benhabib, la globalizzazione e i diritti degli altri
Daniele Castellani Perelli 22 novembre 2006

In un mondo globale in cui i diritti degli uomini non sono globali, come si fa a tenere insieme i diritti degli “altri”, degli stranieri, con quello delle democrazie a chiudersi in sé? Per rispondere a questa domanda Seyla Benhabib, professoressa di scienze politiche presso la Yale University, non esita a confrontarsi con i grandi del pensiero politico della modernità, da Kant a Michael Walzer. Nel suo ultimo libro (I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini. Raffaello Cortina Editore, 2006, 197 pagine, 19,80 euro), la studiosa di teoria politica nata a Istanbul mostra come la grande tradizione della filosofia politica appaia inadeguata a dare risposte convincenti sulla società globale odierna e, in particolar modo, sulla questione della cittadinanza agli stranieri.

Benhabib si dice favorevole a un federalismo cosmopolitico, ad un rafforzamento dei diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo e degli immigrati, purché venga rispettata però la volontà degli organismi democratici territorialmente definiti, di chi è cioè destinato ad accogliere i nuovi arrivati. Il tema è reso sempre più importante e delicato dalla sempre più rapida globalizzazione, che ha sfilacciato la sovranità statale e il modello westfaliano, e contemporaneamente ha accelerato le migrazioni transnazionali: se nel 1910 33 milioni di persone vivevano nel mondo nella condizione di immigrati, nel 2000 erano salite a 175 milioni, cui vanno aggiunti i 20 milioni di rifugiati e richiedenti asilo.

E così, spiega Benhabib, le migrazioni “portano alla ribalta il dilemma costitutivo che sta al cuore delle democrazie liberali: quello tra le rivendicazioni del diritto sovrano all’autodeterminazione e l’adesione ai principi universali dei diritti umani”. La soluzione al dilemma, per l’autrice, sta nel riconoscimento del diritto morale al primo ingresso da parte dei rifugiati e dei richiedenti asilo, perché “nessun essere umano è illegale” e “l’attraversamento dei confini e la rivendicazione dell’accesso a una comunità politica differente non costituisce un atto criminale, bensì l’espressione di una libertà umana e il perseguimento di condizioni di vita migliori in un mondo che dobbiamo condividere con i nostri simili”. Tuttavia non vanno mai perse di vista le esigenze della comunità di accoglienza, per venire incontro alle quali si deve pensare a confini che siano “porosi”, più che aperti. Spetterà poi alle “iterazioni democratiche” modificare ogni volta il confine accettato dalla comunità: il livello di immigrazione “accettabile” da ogni singola comunità sarà aggiornato dalla democrazia di quella stessa comunità, tramite dei “complessi processi pubblici di discussione, deliberazione e apprendimento attraverso i quali le rivendicazioni di diritti universalistici vengono contestate e contestualizzate, invocate e revocate, all’interno delle istituzioni politiche e giuridiche, così come nella sfera pubblica delle democrazie liberali”.

Benhabib mostra quanti progressi abbia fatto il diritto internazionale, e ricorda come già in molti casi il diritto degli individui prevalga su quello degli stati, come “l’esercizio della sovranità statale, anche all’interno dei confini nazionali, è sempre più soggetto a norme internazionalmente riconosciute che proibiscono il genocidio, l’etnocidio, le espulsioni di massa”. Tuttavia sui diritti degli immigrati, che spesso fuggono da regimi dittatoriali, c’è uno strano silenzio: persino la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 non riconosce un diritto ad immigrare, e tace sull’obbligo degli stati di garantire l’accesso agli immigrati, di patrocinare il diritto di asilo, e di concedere la cittadinanza ai residenti stranieri e ai non-cittadini.

Benhabib prende le mosse dal diritto cosmopolitico di Kant, ma al maestro contesta che la sua apertura al diritto di “ospitalità” è troppo limitata dalla necessità che il richiedente asilo debba essere necessariamente in pericolo di vita per essere accolto, e dal potere troppo arbitrario del sovrano cui spetta l’accoglienza. Troppo nazionalistica, e quindi oggi anacronistica, le appare anche la visione di Hannah Arendt (“Il cosmpolitismo di Kant e Arendt si infrange sul loro particolarismo civico e giuridico”), mentre Il diritto dei popoli di John Rawls, per l’autrice, si fonda su una prospettiva troppo statocentrica per rendere giustizia alle questioni sollevate dalle migrazioni internazionali, tanto più che il filosofo americano vede gli individui non come cittadini cosmopoliti, ma come membri di “popoli” (che per Rawls sembrano corpi chiusi e dati di fatto, mentre per Benhabib sono organismi viventi in continua mutazione, con all’interno molteplici e spesso contrastanti concezioni del bene). Ma ce ne é anche per Michael Walzer, che per l’autrice concede troppo potere al sovrano nello stabilire le condizioni del primo ingresso degli immigrati, e che, come Rawls, crede in collettività troppo omogenee, dalle identità troppo forti per poter assicurare un clima adatto all’immigrazione.

Il libro rappresenta un’invocazione alla solidarietà cosmopolita, nel rispetto delle volontà democratiche ma anche nella consapevolezza che il mondo delle nazioni è stato ormai superato dalla globalizzazione e che la globalizzazione dei diritti non ha avuto ancora luogo: “Siamo come viaggiatori che esplorano un territorio sconosciuto con l’aiuto di vecchie mappe, disegnate in tempi diversi e in risposta a bisogni differenti. Mentre il terreno sul quale stiamo procedendo, la società mondiale degli stati, è cambiato, le nostre mappe normative non lo sono – spiega l’autrice – Le crescenti incongruenze normative tra le norme internazionali sui diritti umani, in particolare se riferite ai ‘diritti degli altri’, e le affermazioni della sovranità territoriale sono le insolite caratteristiche di questo nuovo paesaggio”.