Per un mondo arabo democratico e liberale
Anna Mahjar-Barducci 27 maggio 2008

Anna Mahjar-Barducci è presidente dell’associazione “Arabi Democratici Liberali”

Arabi Democratici Liberali. Un nome apparentemente stravagante per un’associazione – creata a Roma assieme a Giuseppe Rippa, Direttore di Quaderni Radicali – che conta cinquanta intellettuali e membri della società civile dal Medio Oriente e dal Nord Africa. In Occidente, infatti, raramente la parola “arabo” è utilizzata assieme a quella di “democratico” o di “liberale”. Ma il liberalismo e la voglia di democrazia nel cosiddetto mondo “arabo-musulmano” esiste. Come dopotutto esisteva all’interno della stessa Unione Sovietica e della Cina di Mao. Il liberalismo – come dottrina di chi sostiene la libertà dell’individuo e della coscienza, applicata a diversi ambiti della vita sociale, quali la politica, l’economia, la filosofia, la religione – in Medio Oriente e in Nord Africa nasce, in epoca moderna, a metà degli anni Novanta. Quando la vecchia élite araba, impegnata in lotte nazionaliste e marxiste (per gli interessi del blocco sovietico), fallisce e l’islamismo inizia a essere criticato.
Il fallimento del panarabismo di Nasser

Negli anni Novanta, infatti, il panarabismo del Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser – nonostante fosse sopravvissuto alla sua morte avvenuta nel 1970 e trovi tuttora alcuni sostenitori – non ha più l’appoggio maggioritario del mondo arabo. La ragione principale è che il panarabismo non è riuscito a creare un framework politico per portare avanti riforme sociali ed economiche. Nasser, infatti, aveva trasformato l’Egitto in uno stato di polizia, che sussiste ancora nel paese, creando un’élite militare che aveva il diritto di controllare l’economia secondo una concezione neo-patrimoniale. Ma soprattutto l’ideologia di Nasser ha portato alla divisione del mondo arabo, generando conflitti interni – a differenza di quello che sognava il panarabismo. Nasser, infatti, non voleva dividere i propri poteri, ma ambiva a trasformare l’Egitto in una potenza egemonica nel mondo arabo, entrando ben presto in competizione con i nazionalisti Ba’athisti in Siria già nel 1958. Lo scrittore e premio Nobel egiziano Naguib Mahfouz, nei suoi racconti, descrive con metafore la propria disillusione e quella di un’intera generazione nei confronti del panarabismo e lo stato di decadenza che questa ideologia ha portato in Egitto.

Da Nasser alle critiche nei confronti dell’Islamismo

Il vuoto del panarabismo è stato poi riempito dall’islamismo, che ha condotto la società arabo-musulmana a un ulteriore deterioramento delle condizioni sociali e delle relazioni con i paesi dell’Occidente. A metà degli anni Novanta, però, iniziano a essere sempre più numerose le voci di coloro che si oppongono alla corrente islamista. La Rivoluzione in Iran nel 1979, che aveva portato al potere un regime totalitario islamista, aveva infatti destato preoccupazione fra gli intellettuali nel mondo arabo. Così come l’ascesa al potere in Afghanistan – dopo la guerra contro l’Unione Sovietica – dei talebani. E’ però con l’ascesa del Front Islamique du Salut (FIS) nei primi anni Novanta in Algeria, che s’innalzano voci contro l’islamismo politico, sfociato in un terrorismo che ha colpito il paese per dieci anni e che ancora continua a minacciarlo.

Dal 1991 fino al 1999, il FIS e poi il Groupe Islamique Armé (GIA) e l’Armée Islamique du Salut (AIS) portano il paese alla disperazione, conducendo una lotta armata non soltanto contro il regime algerino e il suo esercito, ma contro la stessa popolazione. In quegli anni, infatti, senza alcuna esclusione, donne e bambini sono uccisi e i loro corpi mutilati. Politici, scrittori, giornalisti e cantanti pagano inoltre con le loro vite il prezzo della militanza per le libertà civili. Tra questi Tahar Djaout, il primo giornalista ucciso dal GIA nel 1993, la cui frase “Se parli muori, se taci muori, e allora parla e muori” era diventata il motto di un’intera popolazione, che coraggiosamente ha sempre continuato a scendere in piazza contro l’islamismo all’indomani di ogni massacro nel paese.

Negli stessi anni, mentre l’Arabia Saudita continuava una Guerra fredda contro l’Iran sciita per ristabilire l’egemonia sunnita nel mondo musulmano dopo la Rivoluzione islamica, prende forma Hamas in Palestina. E in Egitto, i Fratelli Musulmani si radicalizzano ulteriormente, così come in altri paesi del mondo arabo. L’ascesa dell’islamismo, però, è anche l’inizio della crescita di voci critiche nei confronti di questa ideologia. Infatti, i paesi in cui gli islamisti hanno preso il potere, come l’Afghanistan o il Sudan, si sono trasformati in regimi dispotici. A metà degli anni Novanta, pertanto, non solo in Algeria, ma in particolare in Egitto e anche in Sudan, numerosi intellettuali e membri della società civile sentono il bisogno di esprimersi contro il fondamentalismo religioso.

Il nesso fra dittature e islamismo

Ad alimentare l’islamismo però sono spesso le stesse dittature. Questo è il caso dell’Egitto da Anwar Sadat a Hosni Mubarak e della stessa Algeria negli anni Novanta. Raramente, infatti, si ricorda che la maggior parte delle dittature nel mondo arabo, anche quelle cosiddette “laiche”, cercano di legittimarsi attraverso la religione. Come nel caso del partito Ba’ath in Iraq sotto Saddam Hussein, che aggiunse alla bandiera del paese la prima parte della shahada (professione di fede), “La Illaha Illala” (Non c’è alcun dio al di fuori di Allah). In Tunisia, inoltre – come in Algeria – l’art. 1 della Costituzione afferma che l’Islam è la religione di Stato, e l’art. 37 ribadisce che il Presidente deve essere di credo islamico. Ed è stato lo stesso Presidente Zine El Abidine Ben Ali, salito al potere il 7 Novembre 1987, a riportare, nei primi anni di governo, l’Islam al centro del paese, ribadendo l’importanza della religione nello stesso discorso all’inizio del suo primo mandato, per legittimare il suo “colpo di Stato” contro “il laico” Habib Bourguiba.

La crescita dei movimenti islamisti in Medio Oriente e Nord Africa, inoltre, è dovuta in quasi tutti i casi alla mala gestione della cosa pubblica da parte delle dittature. Questo è ciò che è avvenuto in Algeria negli anni Novanta. L’FLN, allora partito unico, aveva imposto al paese un regime corrotto. Il degrado sociale portò ai moti dell’88, e infine all’ascesa del FIS. Il caos gettato sull’Algeria nei successivi dieci anni neri non è però soltanto dovuto ai movimenti islamisti, ma allo stesso FLN. Il film “Bab el Oued City” del regista Merzak Allouache descrive con lucidità come allora i vertici dell’FLN hanno combattuto, ma anche manipolato e usato l’islamismo nel paese, lasciando l’Algeria senza alcuna speranza.

In Egitto, inoltre, il Presidente Anwar Sadat, per contrastare l’intelligentsia e gli attivisti nazionalisti a favore del blocco sovietico utilizzò e rafforzò i Fratelli Musulmani. La politica attuale del Presidente Hosni Mubarak non si discosta troppo da quella di Sadat. Mubarak, che dai suoi primi anni di governo, ha impedito la nascita di una terza via, ha usato – e continua a utilizzare – gli islamisti. I Fratelli Musulmani infatti sono indubbiamente i suoi antagonisti, ma sono anche paradossalmente i suoi “alleati”. Gli islamisti sono uno degli elementi che permette alla dittatura di Mubarak di rimanere al potere e di legittimarsi agli occhi dell’Occidente. La politica di Mubarak sembra pertanto essere quella di dire all’Occidente di sostenerlo altrimenti i Fratelli Musulmani prenderanno il potere. Intanto, però, i liberali – la terza via – sono incarcerati e messi in silenzio come il leader politico, Ayman Nour.

Il Liberalismo e Internet

Oggi, una nuova élite intellettuale – che proviene da background diversi – sta cominciando a colmare il vuoto dell’islamismo e del panarabismo, focalizzandosi sulle riforme interne del mondo arabo, L’intellettuale libanese Pierre Akel, riassume in questo modo le origini culturali di questa nuova élite:

“In Siria proviene principalmente da ciò che rimane della sinistra comunista o marxista, in maniera simile a quello che succedeva con i dissidenti dell’Europa dell’Est di trenta anni fa. In Arabia Saudita, dal cuore stesso della cultura fondamentalista, ma anche dagli ambienti sunniti ortodossi dell’Hijaz, in cui si trovano le città di Jeddah, Medina e Mecca. […] E il liberalismo viene anche dalla minoranza sciita della Provincia Orientale saudita, ricca di petrolio. […] In Egitto, invece, i liberali si sono ispirati alla grande tradizione liberale che è stata spazzata via dal presidente Gamal Abdel Nasser.”

Se negli anni Novanta, però, le voci liberali erano disorganizzate e disorganiche, dopo gli attentati dell’11 Settembre sono nati numerosi giornali on-line liberali, che hanno scavalcato la censura dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. L’11 Settembre, infatti, è un punto di svolta. Mentre l’Occidente inizia la guerra contro il terrore e parla di “guerra di civiltà” e di “noi contro loro”, intellettuali e no dal Medio Oriente e Nord Africa aprono un intenso dibattito all’interno del mondo arabo stesso in cui si delineano due campi netti: gli oscurantisti e coloro che combattono per le libertà individuali.

L’avvento di Internet inoltre permette che il dibattito sia libero, e nei siti on-line (tra i più noti Elaph.com, Aafaq.org e Metransparent.com) scrittori, giornalisti e membri della società civile hanno iniziato a esprimere senza censure le proprie opinioni contro ogni tipo di assolutismo. Le posizioni di questa nuova élite, peraltro, possono contare dei contributi di importanti intellettuali “riformisti” che già in anni precedenti avevano prodotto un pensiero liberale, come l’egiziano Ali Abd Al-Raziq (1888-1966) e il sudanese Mahmoud Taha, ucciso nel 1985 dal Presidente Gaafar Muhammad Nimeiry.

E’ possibile affermare che in Medio Oriente e Nord Africa sta prendendo forma una vera corrente per le riforme, che seppur lenta sembra essere inarrestabile. Al punto che la parola “Islah” (riforma) è diventata un trend, e gli stessi islamisti si sentono in dovere di utilizzarla – ad esempio come nome stesso di alcune loro formazioni politiche – per rimanere al passo coi tempi. I nuovi siti internet, inoltre, hanno permesso di fare conoscere in Medio Oriente scrittori arabi liberali, che, dato il loro successo fra i lettori, gli stessi canali satellitari come la qatariota Al-Jazeera si sono sentiti in obbligo di invitare in dibattiti tv. Il canale con base a Dubai di proprietà saudita, Al-Arabiya, sembra inoltre volersi contraddistinguere per una sua linea editoriale moderna e aperta al pluralismo. E se qualche anno prima gli arabi che si riconoscevano nel liberalismo non avevano contatti fra di loro, grazie a Internet possono adesso conoscersi a vicenda attraverso i propri scritti e costruire un vero e proprio network.

Elezioni e Democrazia

La voglia di democrazia non appartiene soltanto alle élite intellettuali, ma alla maggior parte della popolazione in Medio Oriente e Nord Africa, stanca di essere vittima del terrorismo da parte dei movimenti islamisti e dell’oppressione delle dittature. Pierre Akel, infatti, descrive così l’attuale situazione nel mondo arabo:

“Nel romanzo di Gabriel Garcia Marquez, ‘L’Autunno del Patriarca’, il popolo apre le porte del palazzo e scopre che il dittatore era già morto da tempo. Questo si poteva applicare all’Unione Sovietica e, adesso, anche alle dittature arabe. Le dittature sono morte; hanno perso da molti anni le loro basi ideologiche e morali. La battaglia è fra i fondamentalisti e i liberali. Il liberalismo è l’onda del futuro”.

La nostra associazione crede fermamente nel principio di democrazia, che porta con sé la divisione non solo tra Stato e religione, ma anche tra Stato ed etnie. Come scrive, infatti, l’intellettuale sudanese Abdullahi Ahmed An-Naim:

“Per essere un musulmano per convinzione e libera scelta, che è l’unico modo per essere musulmano, ho bisogno di uno Stato laico. Per Stato laico intendo uno Stato che sia neutrale nei confronti della dottrina religiosa e che non dica e pretenda di applicare la Shari’a”.

Purtroppo, però, il concetto di democrazia è spesso distorto nei processi elettorali. E le elezioni pertanto non sono sempre sinonimo di democrazia. Nel mondo arabo, infatti, spesso abbiamo assistito a elezioni non libere, in cui gli oppositori al regime in carica sono soggetti a intimidazioni, e la dittatura riceve il 99% dei voti. Abbiamo poi il caso di elezioni in cui uno dei partiti che partecipano al processo elettorale non condivide il principio di democrazia – come nel caso del FIS nel 1991 e di Hamas in Palestina nel 2006. Ed è con le elezioni legislative in Palestina nel 2006 che l’Occidente si è allarmato per l’ascesa al potere di un movimento fondamentalista. Da quel momento, pertanto, i policy-makers internazionali hanno dichiarato che nel mondo arabo gli islamisti sono la principale forza politica, destinata a vincere qualsiasi elezione.

Nelle elezioni palestinesi del 2006, però, Fatah ha ricevuto la maggioranza del voto popolare, ma ha perso a causa del sistema elettorale. Infine, il voto dato a Hamas dalla popolazione palestinese – come confermato dai quotidiani arabi – non era “a favore” del movimento islamista, ma “contro” la corruzione di Fatah. Le analisi dei policy-makers pertanto sembrano non essere applicabili. Ogni qual volta viene invece data la scelta di una “terza via” forte, reale e sincera, contrapposta agli islamisti e alla dittatura, questa prevale. E’ il caso delle elezioni in Pakistan nel febbraio 2008, in cui ha vinto il partito laico di Benazir Bhutto (PPP).

Dal “Noi” all’“Io”

Uno dei temi del liberalismo nel mondo arabo è la promozione delle libertà dell’individuo. L’associazione, infatti, vuole sostenere l’individuo, che non dipende da una comunità e non si annulla in essa, senza per questo dimenticare le proprie origini. In Medio Oriente e in Nord Africa pertanto sempre più persone rivendicano la propria identità, iniziando a definirsi con la propria nazionalità. Un marocchino, pertanto, si qualifica come marocchino prima di definirsi arabo o con la propria religione.

Il termine “Arabi”, nel nome della nostra associazione, quindi si riferisce all’eredità culturale dell’area, e non è sicuramente la piattaforma politica sotto la quale ci poniamo. Anzi, ci riconosciamo nel pluralismo del Nord Africa e del Medio Oriente che non include soltanto arabi, ma berberi, copti, curdi, ecc. Il definirsi prima “marocchino” che “arabo”, o “musulmano”, non significa però uscire da una gabbia per entrare in un’altra. Simbolizza, invece, la ricerca di una propria identità, che rompe con le categorie “dell’arabo” e “del musulmano”, e con la “oumma” (sia essa riferita alla religione, o alla comunità panarabista).

Questa volontà è espressa nella musica, in cui sono utilizzati sempre più i dialetti nazionali, e la scrittura. In Marocco, infatti, esiste un settimanale, Nichane, che pubblica in marocchino, darija, e non in arabo classico, fussha. Un altro esempio, il libro “Le ragazze di Riad” della scrittrice saudita Rajaa Al Sanea, che utilizza un linguaggio colloquiale. E così tanti altri casi ancora. Il direttore del settimanale marocchino Tel Quel, Ahmed Benchemsi, sintetizza in questo modo il concetto qui sopra espresso:

“Alcuni dicono ‘persone’, altri rispondono ‘gruppo’. I primi difendono l’‘individuo’, mentre i secondi si battono in nome della ‘comunità’. […] L’uomo è essenzialmente un individuo, oppure appartiene innanzi tutto al corpo sociale? E perché dovrebbero esserci contraddizioni fra queste due posizioni?

“Secondo l’enciclopedia, l’individualismo è una dottrina politica e sociale fondata su due principi di base: l’autonomia morale, cioè il diritto di ciascun individuo di pensare autonomamente, e la libertà individuale, ossia il diritto di preoccuparsi della condizione dell’individuo prima che della condizione della società. Questo non vuol dire che l’individuo viva in una bolla, o che non solidale con nessuno. Sceglie però liberamente con chi solidarizzare (sindacati, correnti di pensiero, adepti di un certo tipo di arte, ecc.).

“All’opposto dell’individualismo, c’è ‘l’olismo’. Una dottrina secondo la quale l’individuo non può essere preso in considerazione al di fuori del suo gruppo o della comunità. Ancora peggio: se arriva a uscirne, ne diviene il nemico […]

“In sintesi, si tratta dell’ ‘io’ contro il ‘noi’. […]”

La conclusione – come cita anche lo stesso Benchemsi – la prenderemo pertanto in prestito dall’intellettuale iraniano Reza Zia-Ebrahimi: “Quando la collettività diventa il valore supremo, il cui bene primeggia su quello dell’individuo, rimane poco spazio per la democrazia che, per definizione, è il regno delle individualità addizionate”.