La Siria tra torture e crisi umanitaria
Antonella Vicini 16 marzo 2012

H. è un giovane architetto, ma attualmente deve accontentarsi di lavoretti occasionali, mal pagati. Sta cercando di ottenere un visto per gli Emirati Arabi, dove ha degli amici e dove si augura di trovare condizioni migliori: “qui è più difficile per un siriano”, dice. “Ho solo bisogno di un lavoro per aiutare mio fratello minore negli studi. In Siria il costo della vita è aumentato, la moneta si è svalutata e per la mia famiglia è diventato sempre più difficile”.

Dalla primavera siriana all’inferno umanitario

H. è uno dei tanti. Molti come lui hanno subito maltrattamenti; tanti hanno abbandonato il Paese e altri soffrono per le condizioni di sicurezza e umanitarie. Difficile censire le vittime di quest’ultimo anno, in cui quella che era stata immaginata come la “primavera siriana” si è trasformata in un bagno di sangue che ha visto protagonista la popolazione civile. Amnesty International è riuscita a registrare i nomi di almeno 6500 persone uccise durante le proteste, anche se le autorità di Damasco, lo scorso febbraio, hanno fornito dati differenti: 2493 i civili morti e 1345 i membri delle forze di sicurezza. Le Nazioni Unite parlano, invece, di circa ottomila vittime. Una situazione che ha finito per farsi sentire anche nei Paesi confinanti, non solo per l’instabilità politica, ma per la vera e propria emergenza umanitaria che pare la questione più urgente al momento.

Secondo l’Unhcr, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati, sono circa 30 mila le persone fuggite negli stati limitrofi – Libano, Giordania e Turchia – cui si somma una quantità impressionante di siriani sfollati all’interno del proprio Paese: circa 200mila secondo quanto reso noto a Ginevra da Panos Moumtzis, il coordinatore regionale per i rifugiati siriani dell’Unhcr, che ha citato i dati della Mezzaluna Rossa. A tutto questo si aggiunge un’emergenza alimentare sempre più allarmante. La Fao ha diramato un alert proprio nei giorni scorsi, da cui emerge la necessità di tamponare la crescita del costo dei beni di prima necessità a causa di un’inflazione che da giugno a dicembre 2011 è salita del 15%.

FAO e WFP hanno messo a disposizione dei buoni per 100mila persone, ma si tratta di misure temporanee. Già nel 2010, secondo il World Food Program, circa un milione e quattrocentomila siriani avevano perso l’accesso a beni primari, soprattutto in quei luoghi che poi sono stati  maggiormente colpiti da rivolte e repressione, come Homs, Hama, Damasco, Daraa e Idleb. La difficoltà di accesso a acqua, cibo e carburante, inoltre, sta fiaccando anche le aree agricole e pastorali del nord-est, dove circa 300 mila agricoltori e pastori hanno perso anche l’opportunità di lavori stagionali in altre zone del Paese, rendendo ancora più incerti i prossimi raccolti.

Amnesty: In Siria violenze, detenzioni e torture sistematiche

“I wanted to die” è il titolo che Amnesty International ha dato al rapporto pubblicato in questi giorni sui trattamenti subiti nell’ultimo anno dai prigionieri delle forze di sicurezza siriane.

Quarantacinque pagine in cui l’organizzazione per i diritti umani, attraverso le testimonianze raccolte da alcuni dei superstiti rifugiati in Giordania, fotografa, uno per uno, i metodi riservati ai detenuti. Il catalogo è quello classico degli orrori. Trentuno sistemi di abuso che vanno da  botte in varie parti del corpo, all’uso di bastoni, manganelli, cavi, fruste, pezzi di armi, cacciaviti, pinze, sigarette ed elettricità.

Le vittime raccontano di violenze, anche sessuali, commesse spesso di fronte ad altri prigionieri con il duplice scopo di umiliare e intimorire, oppure dell’obbligo di dividere la cella con cadaveri o persone morenti, di mangiare sale o di restare al freddo, nudi, per periodi indefiniti e col divieto di espletare i propri bisogni fisiologici o ancora della negazione di cure mediche. Pratiche codificate, con nomi ben precisi. C’è il Dulab, lo pneumatico per auto in cui viene infilata la vittima e poi appesa mentre viene picchiata; o il Bisat al- Rih, il “tappeto volante”, in cui il prigioniero viene legato a una tavola di legno pieghevole che viene poi arrotolata e srotolata; lo shabeh che consiste nell’appendere la persona per i polsi (o a volte per i piedi a testa in giù) per lungi periodi durante i quali viene picchiata; la sedia tedesca (al-kursi al-Almani) su cui il detenuto viene legato, mentre lo schienale mobile viene spostato avanti e indietro per danneggiargli la schiena. Ci sono poi la sedia elettrica e la crocefissione.

Poche le donne, non mancano invece i minori. Oltre la metà delle denunce riguarda la provincia di Daraa, dove vennero uccisi i primi manifestanti nel marzo 2011; mentre gli altri episodi sono relativi alle zone di Damasco, Rif Dimashq, Hama, Homs, Latakia, al-Suwayda e Tartus. Ciò che emerge è un uso sistematico di questi metodi da parte dei servizi segreti, dall’Air Force Intelligence, alla State e Political Security, alla Military Intelligence. Anche gli ospedali, a volte si sono resi complici di tutto questo.

Già in due differenti rapporti, pubblicati il 28 novembre 2011 e il 22 febbraio scorso, la Commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sulla Siria aveva appurato senza ombra di dubbio l’esistenza di crimini contro l’umanità “con l’apparente consapevolezza e compiacenza degli alti livelli dello Stato”. Secondo Amnesty International il livello di abusi e torture avrebbe toccato i picchi degli anni Settanta e Ottanta.

“L’esperienza fatta dalle tante persone arrestate nel corso dell’ultimo anno – ha dichiarato Ann Harrison, del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International – è ora molto simile a quella subita dai prigionieri sotto l’ex presidente Hafez al-Assad: un incubo di torture sistematiche”.

“Le testimonianze che abbiamo ascoltato – aggiunge la vicedirettrice del programma – descrivono dall’interno un sistema di detenzione e interrogatori che, a un anno dall’inizio delle proteste, ha il principale obiettivo di degradare, umiliare e mettere a tacere col terrore le vittime”. In generale, le torture vengono utilizzate per punire, intimidire e ottenere confessioni e poi può capitare anche, come è accaduto ad H., che “senza avermi fatto nessuna imputazione e dopo la detenzione, un giorno hanno aperto la porta e mi hanno rilasciato”.

Immagine: cc FreedomHouse