16 marzo 2012
“A volte mi mettevano in una cella molto piccola, per quindici persone, ma noi eravamo in quaranta. Altre volte se io parlavo con i miei compagni e chiedevo loro perché erano stati arrestati, venivo preso e portato in isolamento, in una stanza di un metro quadrato, sottoterra, dove non era possibile vedere o sentire ciò che stava accadendo fuori. Il medico mi ha detto che la mia schiena, la mia colonna vertebrale, è stata compromessa per sempre dai maltrattamenti. Ma non ho avuto paura, avevo accettato l'idea della morte. Temevo soltanto per la mia famiglia”. H. preferisce che il suo nome non sia rivelato perché la sua famiglia è ancora in Siria. Lui no. Come tanti fra quelli che hanno conosciuto le prigioni e le torture dei mukhabarat [servizi segreti, ndr] negli ultimi mesi, è uscito dal Paese e ora è in Giordania, dove ha dovuto mettere da parte, almeno per il momento, le sue ambizioni professionali.