“La letteratura araba? Noi italiani siamo rimasti alle Mille una notte”
7 marzo 2007

Autrice, tra l’altro, del volume Letteratura araba contemporanea dalla nahdah a oggi (Carocci, 2002), Camera D’Afflitto è direttrice da quasi quindici anni della collana “Narratori arabi contemporanei” della casa editrice Jouvence. “Un editore arabo voleva pubblicare in una sua collana dedicata ai Nobel anche un autore italiano. Ha mandato lettere a diversi enti pubblici italiani per sapere a chi rivolgersi per pagare i diritti d’autore e per evitare di fare un’edizione pirata. Bene, dall’Italia nessuno gli ha risposto. Figuriamoci, un editore arabo sconosciuto! A quel punto me ne sono interessata personalmente, ma non ho ottenuto nulla, tanto che dopo due anni ho smesso di incontrare questo editore perché mi vergognavo troppo di essere italiana”: parte da questo episodio, emblematico a suo parere della cattiva politica culturale italiana verso il mondo arabo, per discutere di quel mondo, sconfinato e sconosciuto (“siete rimasti alle Mille e una notte, dice”) che è la letteratura araba contemporanea.

Si può parlare di “letteratura araba” in generale? Cosa include questa definizione e quali sono, se esistono, i tratti identificanti di questa letteratura?

Insieme ai miei colleghi arabisti, ci battiamo da sempre affinché non si possa più parlare così genericamente di “letteratura araba”, come se fosse un tutt’uno (sarebbe come parlare di “letteratura europea”), quando all’interno di questa letteratura ci sono tante realtà diverse: la letteratura dell’Arabia Saudita è molto diversa da quella dell’Egitto, della Siria, del Libano, e del Marocco etc. E il fatto che in tutti questi paesi si scriva in lingua araba non giustifica l’utilizzo della definizione “letteratura araba”, quando spesso tra l’altro non sappiamo neanche di che paese è l’autore. Sarebbe quindi più giusto parlare di letterature arabe al plurale, oppure distinguere la letteratura siriana, egiziana, etc.

Quali sono i temi ricorrenti nei romanzi arabi? Ci sono argomenti esclusi (scabrosi, ad esempio, o politici)? Qual è, cioè, il livello di libertà di espressione nei vari paesi di lingua araba?

È difficile rispondere a questa domanda, perché se parliamo di un libro in Arabia Saudita le dovrei rispondere in un modo, se parliamo di Egitto in un altro. È vero che in molti di questi paesi esiste l’istituto della censura, quindi molte cose non si possono dire, ma è anche vero che ci sono tantissimi modi per aggirarla: e infatti nel mondo arabo si scrive e si pubblica di tutto. Un esempio per tutti è il Libano, che ospita le più grandi tipografie e case editrici, ed è sempre stato un modello di pluralismo e di libertà editoriale, addirittura dal 1800. Ma anche in Egitto c’è spesso qualche libro che fa scalpore, e di conseguenza vende parecchio e il suo autore diviene molto conosciuto. Insomma, noi abbiamo una forte preclusione, immaginiamo un mondo assolutamente retrogrado, dove non si può parlare di nulla: invece, per farle un altro esempio, pensi che tra poco uscirà per la casa editrice Ilisso (una casa editrice che ha una collana dal nome Ilisso Contemporanei, al cui interno c’è una sezione di letteratura araba, che io curo) il libro di una scrittrice saudita, Leila Giuhni. Il libro, che si chiama Paradiso Perduto, affronta temi come l’aborto, le relazioni extraconiugali etc, in un’Arabia Saudita in cui le donne sono costrette a portare il velo e a vivere in segregazione. Un’altra lettura che consiglierei, sempre in relazione a un paese in cui le donne vivono in una condizione di quasi apartheid, è una raccolta di racconti che ho curato anni fa per l’editore E/O, Rose d’Arabia, dove alcune donne dell’Arabia Saudita, che è il caso più estremo, affrontano temi scabrosi. Un altro caso, infine, è il libro di al-Aswani, scrittore egiziano tradotto in Italia da Feltrinelli. Il romanzo, dal titolo Palazzo Yacoubian, è un libro in cui si parla anche di omosessualità. Non deve sorprendere se anche gli arabi toccano questi argomenti: dopo tutto gli autori arabi parlano di tutto, malgrado le varie censure.

Ma i fondamentalisti non protestano?

Nel caso di questo autore egiziano non è successo niente, in altri capita che un integralista si svegli gridando allo scandalo e porti per strada migliaia di persone a protestare, ma sono sempre proteste strumentali, tanto che spesso chi va in piazza non sa neanche perché lo fa.

Tornando ai temi, invece?

C’è anzitutto una letteratura impegnata come quella palestinese, in cui un tema centrale è la terra, il ritorno in patria, oppure la dura vita degli arabi in Palestina: temi molto legati alla politica (anche se ciò non toglie che all’interno di questi filoni impegnati ci possano essere scrittori come l’arabo di Israele Emile Habibi, che ha affrontato questi stessi argomenti con molta ironia e sarcasmo). Ci sono poi autori che naturalmente affrontano altre tematiche, meno impegnate sul piano socio-politico, e scrivono romanzi più intimisti. Il caso del Maghreb è un po’ diverso, ci sono scrittori che affrontano molto il tema dell’immigrazione, o il fatto di vivere la duplicità linguistica, del francese e dell’arabo. Un’altra situazione è quella dell’Iraq: lì c’era il fior fiore dell’intellighenzia araba, era il paese più all’avanguardia come soggetti, stili, romanzi, novità. Oggi la situazione è tragica, ma nonostante ciò gli intellettuali continuano a scrivere, ma certo non di cose molto allegre. Proprio a riguardo dell’Iraq vorrei almeno ricordare un grande scrittore, Fu’ad al-Takarli, un ex giudice che da trent’anni vive in esilio (un suo romanzo è stato tradotto in Italia da Jouvence). Insomma, i temi sono molto legati alla situazione politica del momento.

Ci può descrivere il mercato editoriale dei paesi arabi? Quali sono i bestseller più venduti e di che trattano? E come convivono in questi romanzi recupero della tradizione da un lato e spinta al rinnovamento e alla modernizzazione dall’altra?

Faccio un altro esempio, quello di uno scrittore libico molto noto, invitato al salone del libro a Torino l’anno scorso e quest’anno a Galassia Gutenberg a Napoli: si chiama Ibrahim al-Koni, è un autore libico che parla solamente di deserto, anzi, è veramente lo scrittore per antonomasia del deserto arabo, e nonostante oggi viva in Svizzera continua a scrivere romanzi su questo tema. Bene, al-Koni riesce a mediare tra le tradizioni popolari, i miti e leggende del deserto che pochi conoscono, e di cui un cittadino metropolitano del Cairo non sa nulla, e una grande cultura occidentale, dal momento che è uno scrittore coltissimo che ha vissuto e ha studiato in Russia e Polonia. Sa, spesso questi scrittori sono dotati di una vastissima cultura tanto che a volte è imbarazzante confrontarsi con loro, vista la loro profonda conoscenza del nostro mondo, e la nostra ignoranza del loro.

In che modo la letteratura racconta la religione? Esistono ad esempio dei filoni di letteratura “secolarizzante”?

La maggior parte degli intellettuali è laica, come da noi. Certo ci può essere un autore con una venatura più incline al misticismo, uno più religioso, etc: comunque anche se la religione entra nella storia privata, il letterato di oggi non è mai un musulmano integralista. Non dimentichiamoci poi che molti arabi sono cristiani. In Siria ci sono moltissimi autori cristiani, in Libano pure, basta pensare ai maroniti. In Egitto, poi ci sono tanti copti che sono cristiani: l’alessandrino Edward al-Kharrat, che è copto, è uno dei massimi scrittori contemporanei, ed è un copto laico. Insomma, noi facciamo sempre l’equazione arabo uguale musulmano, ma non è così. E ci dimentichiamo troppo spesso che esistono i laici.

Nel mondo arabo, ci sono autori che scrivono in madrelingua e altri che scelgono l’inglese e il francese, con più chances di essere tradotti: è vero che questo produce il paradosso per cui alcuni scrittori praticamente sconosciuti nel mondo arabo (Tahar Ben Jelloun ad es.) hanno grande successo in Occidente?

Prendiamo l’esempio degli autori maghrebini. L’Algeria è diventata indipendente nel ‘62, e prima di questa data gli algerini non conoscevano un’altra lingua, perché l’arabo era stato sostituito dal francese, quindi uno scrittore algerino di quella generazione non sa l’arabo, ed è naturale che scriva in francese. Poi ci sono quegli scrittori che vivono all’estero e sono talmente integrati all’estero che, se vogliono, possono scrivere in francese o in tedesco, o in italiano (anche se sono molti gli autori che, pur avendo vissuto all’estero per decenni, ambientano i loro romanzi nel mondo arabo). Il caso che forse “urta” di più gli intellettuali arabi che scrivono in arabo è quello di chi può scrivere in entrambe le lingue e sceglie quella occidentale, e che a volte appare un opportunista, una persona che sceglie l’opzione che lo rende più visibile agli europei. Ma la realtà può essere diversa: chi può veramente dire se questa persona era poi veramente in grado di scrivere in arabo?

In che senso, scusi?

L’arabo è una lingua difficile, ci vuole un continuo rispetto della grammatica e della sintassi, altrimenti si fanno molti errori. In ogni caso, noi specialisti non consideriamo queste letterature scritte in altre lingue come parte integrante della letteratura araba, perché sono comunque letterature spurie, hanno subito contaminazioni linguistiche e quant’altro etc. Quando ci sono, ad esempio, convegni sulla letteratura araba in Egitto, gli scrittori che non scrivono in arabo non vengono invitati, sono considerati una categoria a parte, rispettata, ma a parte. Insomma, sono un po’ bistrattati dal mondo arabo, ma in compenso sono quelli che l’Occidente conosce meglio.

Quali sono invece gli autori occidentali conosciuti e amati nei paesi arabi?

Calvino è famosissimo, Umberto Eco anche, tanto che tutti vorrebbero invitarlo, Moravia è stato tradotto integralmente, come Pirandello e Tabucchi, e si iniziano a tradurre anche Magris e Del Giudice. Il libro più famoso è Il deserto dei Tartari di Buzzati. In breve, loro hanno letto tutto e quello che è famoso da noi è famoso anche da loro.

La traduzione di romanzi arabi potrebbe aiutarci a correggere pregiudizi e stereotipi verso di esso. Perché invece le grandi case editrici traducono poco dall’arabo?

Ora va un po’ meglio rispetto al passato, la situazione è diversa, e sono contenta, perché almeno non sono solo le piccole case editrici a far conoscere questa letteratura, ma anche grandi editori come Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, etc. Il problema è che malgrado questi autori siano famosi momentaneamente, nel giro di tre-quattro mesi comunque tutto tace, e si ha sempre l’impressione che della letteratura araba non si sappia mai nulla. Per questo sono comunque contenta di lavorare con piccole case editrici, perché collane come quella della Jouvence che si chiama “Narratori Arabi Contemporanei” dura da quindici anni e si trova in tutte le biblioteche universitarie, comunali etc, mentre le edizioni sporadiche dei grandi editori si esauriscono nel giro di pochi mesi.

Il nostro mercato editoriale è invaso di saggi sull’Islam. Non pensa che il romanzo sia un genere più adatto della saggistica a veicolare una descrizione realistica del mondo arabo, soprattutto perché, oltre ad avere una circolazione più ampia, produce un coinvolgimento emotivo maggiore?

Il problema non è tanto quello, ma il fatto che scriviamo tanto su di loro mentre non sappiamo quello che loro pensano e dicono veramente, nella narrativa come nella saggistica. Non possiamo solo scrivere sull’altro, ma dobbiamo cominciare a leggere e apprezzare, e magari anche criticare, quello che l’altro scrive e argomenta. Ma la precondizione di tutto ciò è la traduzione.

A questo proposito, quanto è difficile tradurre dalla lingua araba?

Tradurre dall’arabo è difficilissimo, e non è un caso che io sia sempre alla ricerca di nuovi traduttori. Infatti, tutti smettono dopo poco perché è un lavoro stancante, talvolta bisogna riscrivere il romanzo del tutto, e soprattutto è poco remunerativo.

Quali sono gli appuntamenti editoriali (fiere del libro, etc) più significativi?

Una cosa bella, rispetto a quando ho cominciato a lavorare in passato, è che oggi quando c’è una fiera del libro o simili, c’è quasi sempre anche un autore arabo: questo succede ormai regolarmente a Torino, a Mantova, a Napoli e in vari festival che si fanno in Puglia o in Sicilia. Si tratta di una cosa nuova e positiva.

Lei ha detto però che manca una politica culturale dell’Italia per i Paesi arabi.

Sì, basta vedere la differenza con altri paesi, come la Francia ad esempio. Lì seguono molto la parte culturale: nelle ambasciate, nei centri culturali mandano persone che conoscono il mondo arabo anche da un punto di vista letterario, non solo economico e storico. Nel nostro caso invece, sebbene ci sia un amore viscerale e speciale del mondo arabo nei confronti dell’Italia, siamo incapaci di ricambiarlo.