Istanbul, il caso Dink attende ancora giustizia
Massimo Rosati 13 febbraio 2012

Hrant Dink era una personalità dallo spessore umano fuori dal comune, e la sua battaglia per il riconoscimento delle sofferenze patite dagli armeni a cavallo della fatidica data del 1915 non è separabile dalla sua personalità, che ne faceva figura scomoda per il nazionalismo turco ma anche, alle volte, controversa all’interno della stessa comunità armena. Hrant Dink era solito dire: “Andrò in Francia a dire che non ci fu alcun genocidio armeno, e starò in Turchia a dire che ciò che avvenne fu genocidio.” Hrant Dink sapeva che i nazionalismi si rinforzano a vicenda, e che la cura contro il nazionalismo turco, ancora oggi un veleno potente, non era il nazionalismo armeno, sfruttato da molti (è ancora vicenda recente in Francia e Israele) per fini che con la sofferenza degli armeni hanno poco a che fare.

Questa consapevolezza, tattica ma anche frutto di una straordinaria capacità empatica, spingeva Hrant Dink a cambiare del tutto strategia. Piuttosto che insistere sul riconoscimento del genocidio in quanto tale, e della cifra di un milione e mezzo di morti, Hrant Dink chiedeva a turchi e armeni di guardare alle radici della convivenza, alla storia delle relazioni reciproche: “I rapporti fra armeni e turchi e le loro interazioni reciproche non sono così banali da essere liquidati in due parole. Si tratta di corredi identitari, frutto di scambi reciproci avvenuti nel corso di relazioni plurisecolari. L’unione vissuta è talmente profonda che entrambe le parti definiscono tradimento il deteriorarsi di questa convivenza.” Hrant Dink chiedeva agli uni e agli altri di curare il reciproco veleno recuperando l’orizzonte di un futuro condiviso, a partire da un passato in cui il trauma per lo ‘sradicamento’ degli armeni (questa l’espressione usata frequentemente da Dink, insieme a ‘devastazione’, a indicare la violenza della separazione da una terra e dalle sue memorie subita dagli armeni) si intrecciava a storie di solidarietà e convivenza. Che questo non potesse avvenire che a partire dalla verità storica e dalla giustizia è cosa certa e non discutibile, ma che alla verità e alla giustizia dovesse accostarsi la rinuncia ad una inintelligente guerra di opposti nazionalismi era invece lo specifico timbro di Hrant Dink.

A cinque anni dal suo barbaro omicidio, la giustizia sembra essere stata seppellita dalla sentenza di una corte che ha condannato a 23 anni Ogun Samast, diciassettenne (nel 2007) nazionalista turco. Amnesty International, l’associazione Friends of Hrant, la Hrant Dink Foundation, l’opinione pubblica turca non avvelenata dal nazionalismo, denunciano le negligenze delle autorità turche nell’indagare a fondo sui veri mandanti dell’omicidio, sulle responsabilità e connivenze dello Stato. Nel 2010 la Corte europea per i diritti umani aveva condannato lo Stato turco (che in quell’occasione aveva rinunciato al ricorso) a risarcire la famiglia per non aver protetto la vita di Hrant Dink. Per la sua battaglia, infatti, Dink era da tempo al centro di una campagna d’odio, che aveva prodotto reiterate minacce e una condanna nel 2005 a sei mesi, con sospensione della pena, per aver “denigrato l’identità turca”, accusa falsa e assurda, resa possibile solo dalla malafede e trasformata in condanna solo in virtù dall’esistenza di un liberticida articolo del codice penale turco (oggi parzialmente riformato). Ma le responsabilità delle autorità turche non finiscono qui, nel non aver protetto la vita di Dink.

Da subito dopo la sua morte e nel corso di questi cinque anni, gli avvocati della famiglia di Dink hanno portato prove mai prese davvero in considerazione della responsabilità della gendarmeria di Trebisonda, e soprattutto dei fili oscuri che legano questo omicidio alle attività illegali di una organizzazione segreta, Ergenekon (una sorta di P2 turca), che univa pezzi del ‘deep state’, militari, organizzazioni nazionalistiche, burocrazia, media, responsabile secondo molti di tentativi reiterati di eliminare il governo Erdoğan, il movimento di Fetullah Gülen, e di avere responsabilità nelle uccisioni di Padre Andrea Santoro, dei tre missionari cristiani a Malatya, e altri fatti di sangue della storia turca recente.

Oggi il governo Erdoğan è accusato a sua volta, dopo aver combattuto per quasi un decennio il deep state, di essersi accomodato a sua volta nelle istituzioni statali, e di sacrificare la giustizia proprio per proteggere il deep state: che il potere corrompa non è una novità. La storia e la geopolitica turca sono quanto mai complesse, e vanno trattate con cura e a partire dalla conoscenza di una realtà che ha tratti paradossali se vista da fuori. Rimane però il fatto che fare giustizia sul caso Dink significa andare al cuore e alle radici di quella tradizione che sacralizza lo Stato, che affonda le sue radici nel periodo del partito di Unione e Progresso, e trova continuità nella storia repubblicana soprattutto nel Kemalismo, tradizione e mentalità che nelle minoranze tutte, secolari come religiose, curde come armene, alevite come islamiche sunnite (e si potrebbe continuare quasi all’infinito tanto è complesso il mosaico turco) ha visto un nemico interno, una minaccia da debellare con ogni mezzo.

Ecco perché Dink era pericoloso. Fu lui a ricordare ai turchi che Sabhia Gokçen, cui oggi è intitolato uno dei due aeroporti civili di Istanbul, prima donna pilota militare turca, figlia adottiva di Mustafa Kemal Atatürk, era un’orfana del genocidio armeno. Simbolicamente, per il nazionalismo turco, un cortocircuito inaccettabile. Ecco perché Dink è potuto diventare, in vita e in questi anni dalla sua morte, un simbolo per tutte quelle minoranze, laiche e religiose, che credono e lottano per un paese pluralista, nonché un simbolo riconosciuto da quell’Islam sunnita pluralista (per vocazione o per apprendimento) che per decenni è stato esso stesso vittimizzato o strumentalizzato dallo statalismo secolarista kemalista. Intorno alla memoria della figura di Dink c’è oggi un’alleanza che fuori dal contesto turco potrebbe apparire innaturale o paradossale, che raccoglie liberali, musulmani conservatori, sinistra democratica e radicale (cui Dink apparteneva culturalmente e in cui aveva militato da giovanissimo), tutti impegnati nella democratizzazione del paese. La battaglia per la memoria di Dink è, in questo quadro a maggior ragione, una battaglia contro il potere del nazionalismo e del deep state. Questa coalizione oggi non può non essere via più critica nei confronti del governo Erdoğan, accusato di aver perso quella spinta riformatrice che aveva inizialmente, almeno in termini di apertura di spazi di diritti civili e culturali, seppur tra molte contraddizioni e nel quadro di un conservatorismo morale e di un liberismo economico marcati.

La Turchia per cui Dink combatteva era una Turchia capace di venire a patti con il suo passato e le sue memorie divise, in primis quella relativa alla questione armena – che della memoria turca è il punto realmente nevralgico –, ma con ciò e in virtù di questo aperta a tutte quelle risorse culturali e storiche, laiche e religiose, che ne hanno fatto un paese straordinario; la Turchia di Dink, per fare un esempio simbolicamente di grande portata, era una Turchia in cui Haghia Sophia fosse restituita ai fedeli, e non già proprietà dello Stato. Ai fedeli musulmani, certo, ma data la sua storia unica anche a quelli cristiani, aperta a entrambi i culti, come segno lanciato da Istanbul non solo di tolleranza, ma di scommessa sulla forza e ricchezza delle diversità, contro la loro mortificazione ad opera di un secolarismo anti-democratico.

È qui che la memoria di Dink diventa compito di tutti. Diventa compito anche dell’opinione pubblica europea, e italiana; diventa compito della sinistra, europea e italiana. La memoria di Dink e la solidarietà a quanti in Turchia combattono questa battaglia è una battaglia a fianco della comunità armena, ma è anche una battaglia contro l’arroganza del potere («la lotta degli uomini contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio» è la frase di Kundera che veniva richiamata giorni fa da Orhan Kemal Cengiz, avvocato dei diritti umani e opinionista di Radikal e Today’s Zaman, in un suo articolo sul Today’s Zaman), per la giustizia; è una battaglia per la Turchia, paese amico e straordinario; ma è una battaglia per l’Europa, contro il suo progressivo arroccamento e razzismo; ed è una battaglia per la sinistra, e per ogni democratico.