Dopo la crisi: è una questione di reddito
Sabrina Bergamini 19 settembre 2011

Il reddito concentrato nelle mani di poche persone «al vertice della piramide sociale» rappresenta una minaccia per la società e per l’economia e rischia di indebolire la democrazia. I guadagni economici vanno dunque redistribuiti in modo tale che non vi sia una disuguaglianza di reddito tale da minare la crescita economica – perché in quel caso le classi medie non avrebbero potere d’acquisto per consumare ciò che viene prodotto – e da mettere in pericolo la democrazia, perché in un contesto di disuguaglianza si rischia di cedere alla «politica della rabbia». Se invece una percentuale maggiore di cittadini avesse una fetta più grande di ricchezza, quindi se questa fosse distribuita con più equità e meno concentrazione nelle mani di superdirigenti, manager, banchieri e trader, si avrebbero anche più consumi, più occupazione, più crescita economica. Ma i ricchi sono diventati sempre più ricchi e si sono ampiamente ripresi dalla crisi, mentre i ceti medi si stanno impoverendo, anche per le politiche di mercato seguite: questo non è un bene perché «se continueremo a essere ostaggi del mercato, andremo incontro a livelli di diseguaglianza e insicurezza ancora più alti, tali da minacciare tanto le nostre economie quanto la politica interna di ciascun paese».

È l’argomentazione portata avanti da Robert B. Reich, docente di Amministrazione e Politiche pubbliche all’Università di Berkeley (California), ex Segretario del Lavoro degli Stati Uniti durante l’amministrazione Clinton, autore del saggio Aftershock. Il futuro dell’economia dopo la crisi (Fazi Editore, 2011). L’autore, ripercorrendo diverse fasi della storia americana e mettendo a confronto il periodo della Grande Depressione con quello della Grande Recessione scaturita dalla recente crisi economica, concentra la sua tesi sulla necessità di redistribuire il reddito e di evitare che si crei una elevata concentrazione di ricchezza al vertice della piramide sociale, in quelle classi di ricchi e super-ricchi che si sono ripresi subito («All’inizio del 2010, a poco più di un anno dal crollo, Wall Street ha elargito pacchetti retributivi come se la crisi non ci fosse mai stata») e a scapito delle classi medie. Alla base vengono poste non motivazioni etiche, ma economiche e politiche: non può esserci ripresa e vera crescita se le classi medie vedono arretrare il loro potere d’acquisto, e a ben vedere si rischia anche di far andare in frantumi l’equilibrio sociale. Senza contare che i più ricchi si isolano in un mondo composto da istruzione privata, sanità privata, quartieri esclusivi, determinando così una continua flessione in qualità di scuola e sanità pubbliche.

L’analisi di Reich è tutta concentrata sulla realtà americana, ma nella prefazione all’edizione italiana l’autore scrive: «Da decenni, in Italia come negli Stati Uniti, i benefici della crescita economica vanno sempre di più ai cittadini più ricchi. Tra le economie avanzate, l’Italia è uno dei paesi con il maggior livello di diseguaglianza dei redditi, subito dietro a Stati Uniti e Gran Bretagna». Argomenta Reich: «La crescita lenta e il protrarsi delle turbolenze economiche avranno anche conseguenze politiche, in Italia come negli Stati Uniti. Alimentando le preoccupazioni e le frustrazioni dei cittadini, questi fenomeni diventano materiale utile per demagoghi che usano la paura come strumento per estendere il loro potere. Questi incitano i cittadini a dare la colpa dei problemi economici agli altri: agli stranieri, agli immigrati, alle minoranze. Il risultato può essere un nazionalismo, un nativismo, una xenofobia e un’intolleranza spinti all’estremo, se non peggio. La stessa democrazia è a rischio».

La storia tutta americana che Reich racconta ha dunque degli elementi comuni a tutte le società che si ritrovino in una situazione di disuguaglianza economica spinta (tratti che, verrebbe da aggiungere, in Italia già si sono ampiamente manifestati). L’esito di pulsioni di questo genere, ipotizza l’autore disegnando per gli Stati Uniti uno scenario di fantapolitica, potrebbe essere un Partito dell’Indipendenza intransigente, xenofobo e isolazionista, risposta a una «politica della rabbia» pericolosa, che a sua volta sarebbe frutto della consapevolezza che «il gioco è truccato». Perché, spiega Reich, gli americani potrebbero anche accettare salari più bassi, alta disoccupazione, disuguaglianza e un calo del tenore di vita, ma «quando tutto questo si aggiunge a una percezione che il gioco economico sia truccato – cioè, che per quanto ci impegniamo non riusciamo ad avanzare perché i grandi detentori della ricchezza e del potere ci bloccheranno la strada – la combinazione potrebbe essere tossica. Gli sconfitti nei giochi truccati potrebbero arrabbiarsi molto».

Non è questa, però, la soluzione in cui l’autore crede. Di fronte alle disuguaglianze, diventa infatti necessario adottare «riforme sociali ed economiche di ampio respiro», ripristinare un «patto di base» che renda più equa la società, che si basi su un migliore equilibrio fra produzione e salari e dia ai lavoratori una quota della crescita economica. Il tutto si può fare attraverso una serie di interventi – descritti dall’autore alle fine del saggio – considerati concreti e realizzabili.

Quello lasciato è, in fondo, un messaggio di speranza, centrato sulla considerazione che, finita l’epoca del predominio assoluto del mercato, sia necessario ma soprattutto fattibile un nuovo accordo sociale che faccia circolare i frutti dell’economia e dia nuove leve per risollevare reddito, istruzione, occupazione e sanità di coloro che non nascono avvantaggiati dal portafoglio-titoli. L’analisi è americano-centrica ma nella tesi di fondo (accentuare le disuguaglianze e avere un vertice troppo ricco mina lo sviluppo economico e la democrazia) è applicabile, e di conseguenza rimodulabile, in altri contesti. E se è vera l’analisi proposta, è facile ad esempio immaginare come politiche che in Italia non mettano mano alla distribuzione del reddito, intaccando i grandi patrimoni evasi e dando nuove opportunità alle classi medie, povere e in via di impoverimento tutte, siano votate al fallimento e possano tradursi in concreti rischi per l’economia (già stagnante), la coesione nazionale (ormai fragile) e la democrazia (da tempo attaccata da pulsioni intolleranti). E di questi pericoli, gli esempi concreti non mancano affatto.