Che affare gli immigrati. Ma l’Italia preferisce ignorarlo
Daniele Castellani Perelli 5 maggio 2010

«Adesso capita spesso – confessa Lino – che a letto con Virginia, prima di addormentarci, ci scopriamo a pensare la stessa cosa riguardo la giornata di raccolta: è stato, sono stati, la nostra fortuna». Non è frequente, nell’Italia di oggi, sentir parlare degli immigrati con le parole di Lino Bergamo, coltivatore indipendente della Val di Non. Li definisce “fortuna” per sé, perché sono raccoglitori molto più efficienti di quelli italiani («Gli ultimi che ho provato, anni fa, dopo cinque mele lì, basse, si sedevano. E io ‘ma che fai, ostia, te siedi?‘ e mi dicevano che erano stanchi»). Ma in realtà sono la fortuna di tutti noi in generale, visto che – come racconta Riccardo Staglianò nel suo Grazie. Ecco perché senza gli immigrati saremmo perduti (Chiarelettere, pp. 240, 14,60 euro), libro da cui sono tratte le citazioni – gli immigrati sono poco più del 6% della popolazione e producono circa il 10% del Pil, pagano tasse per 5,8 miliardi di euro e usufruiscono di servizi pubblici per soli 700 milioni di euro.

Il giornalista de la Repubblica torna a occuparsi di migranti dopo I cinesi non muoiono mai (scritto con Raffaele Oriani) e lo fa con un’inchiesta che è un giro d’Italia alla scoperta di quelle professioni in cui se “loro” non ci fossero sarebbe un bel casino per “noi”. Non si tratta soltanto di lavori di cui si parla più frequentemente in questi casi, come le badanti (per il 70% straniere, e guadagnano qualcosa come due euro all’ora). Staglianò racconta anche i pescatori di Mazara del Vallo (per il 50% stranieri, se si considera quelli che lavorano in mare aperto), le bufale salvate dai sikh, l’Expo 2015 milanese nelle mani degli operai stranieri (nell’edilizia lombarda sono il 41%), le cave “cinesi” della Val Infernotto. E poi lo sapevate che per il Gambero Rosso la migliore carbonara d’Italia la fa un tunisino, Nabil Hadj Hassan? Che in Umbria il 49,5% dei preti sotto i quarant’anni sono d’importazione? E vogliamo parlare di calcio e prostituzione, due campi a cui l’italiano medio è molto affezionato?

Questo è un viaggio lungo idealmente 24 ore, da Nord a Sud, in cui a ogni ora corrisponde uno di quei lavori per cui, dalla mattina alla sera, non dovremmo che ringraziarli, “loro”. Altro che “rubarci il lavoro”. Non solo fanno lavori che – come si dice – noi non facciamo più, ma tengono a galla settori che altrimenti crollerebbero, con evidenti conseguenze per l’occupazione di quelli che sono italiani al 100 per cento (almeno sulla carta d’identità). E noi come li ripaghiamo? Facendoli lavorare a nero (così privandoli peraltro di un’assicurazione sanitaria e esponendoli al ricatto di datori di lavoro senza scrupoli) e permettendo che diventino, sui media e nel discorso politico, i capri espiatori della nostra infelicità pubblica. C’è una bella storia, a pagina 112 del libro di Staglianò. Racconta di un gruppo di conciatori indiani. Tutto bene finché se ne stanno chiusi in fabbrica, a mandare avanti un’azienda italiana. Poi, quando decidono di svagarsi e andare a fare due salti in palestra, ecco qualcuno lamentarsi della “insostenibile” massa di clienti stranieri, che poi sono «dieci piccoli indiani a fare pesi, silenziosi, rispettosi, ottimi pagatori» in un mare di 1500 clienti. Dice la stra-citata frase di Max Frisch: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini». E a questi uomini l’Italia non sa dire grazie.