La Palestina tra memoria e sciopero della fame
Azzurra Meringolo 16 maggio 2012

La Higher Arab Monitoring Committee, rappresentante delle comunità palestinesi in Israele, aveva annunciato uno sciopero generale, invitando i palestinesi a visitare i siti dove un tempo si trovavano i loro villaggi. Nel corso della giornata c’è stata una escalation di tensione che ha provocato alcuni scontri tra manifestanti e forze di sicurezza israeliane. Al checkpoint di Beitunia, nei dintorni di Ramallah, giovani palestinesi hanno gettato pietre contro i militari che, per disperderli, hanno risposto lanciando lacrimogeni e sparando proiettili di gomma e metallo. Una ventina i feriti arrivati negli ospedali della zona. Più di duecento invece i manifestanti che hanno cercato di sfidare l’esercito israeliano nei dintorni di Hebron e sulla strada tra Gerusalemme e Betlemme. Qui si trova infatti la tomba di Rachele, venerata da ciascuna delle tre grandi religioni monoteiste come il luogo dove la moglie di Giacobbe morì dando alla luce Beniamino. Alta la tensione anche nei dintorni della Striscia di Gaza, da dove, secondo le denunce della polizia israeliana, sarebbero stati lanciati colpi di mortaio lungo il confine meridionale dello stato ebraico.

A marcare la Nakba del 2012 è stata soprattutto la notizia della fine del lungo sciopero della fame che circa 1600 detenuti palestinesi hanno portato avanti contro il sistema giudiziario israeliano. Iniziato il 17 aprile scorso, il giorno che i palestinesi dedicano ai prigionieri, il digiuno voleva essere una forma di protesta verso le condizioni nelle quali i carcerati sono costretti a vivere (restrizione delle visite familiari, scarse cure mediche eccetera), e, soprattutto, contro la detenzione amministrativa. Secondo questa pratica i palestinesi vengono arrestati e tenuti in cella senza accuse e senza un processo. Una reclusione a tempo indeterminato nella quale ricadono quanti sono sospettati di costituire una minaccia alla sicurezza del paese. Secondo Amnesty International, che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa, “i palestinesi sottoposti a questa pratica possono restare in carcere per sei mesi, trascorsi i quali il periodo può essere rinnovato a tempo indeterminato. Non vengono formalmente incriminati poiché non vi è l’intenzione di sottoporli a processo.”

Ancor prima che iniziasse la protesta collettiva, due detenuti, Bilal Diab e Tha’er Halanleh, avevano dato il via allo sciopero. Entrambi militanti della Jihad Islamica, questi palestinesi sono arrivati a quasi ottanta giorni di digiuno. Nel farlo hanno seguito l’esempio di Khader Adnana, un altro attivista di questo movimento islamista, che, rompendo in parte con la strategia della violenza usata in passato da questa fazione, ha iniziato la pratica non violenta del digiuno.

Ripetendo quanto già accaduto nel 2006, i prigionieri hanno cercato di esercitare una certa pressione politica. Sei anni fa infatti, i detenuti scrissero un documento per porre fine alla frattura dei palestinesi dovuta alla vittoria elettorale di Hamas, costringendo questo partito islamista che gestisce il potere su Gaza a firmare l’accordo insieme a Fatah,che governa la Cisgiordania. Quest’anno invece, i carcerati hanno cercato di catturare l’attenzione internazionale per riportare la questione palestinese al centro del dibattito mediorientale.

E mentre nel web lo hashtag #PalHunger è diventato sempre più affollato, l’Unione Europea e il segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon sono scesi in campo per scongiurare la morte di Diab e Halahle. Inoltre, alla vigilia della ricorrenza della Nakba, decine di migliaia di persone hanno deciso di cambiare il loro avatar su Facebook e Twitter, sostituendo la loro immagine con la sagoma di un detenuto palestinese in divisa carceraria. Questo ha allertato non solo Tel Aviv, ma anche l’Autorità Palestinese che ha temuto che la morte dei detenuti potesse innescare una deriva violenta.

È in questo clima di paura che lunedì sera è arrivata la notizia di un accordo tra il servizio di sicurezza interna israeliano e i rappresentanti dei detenuti palestinesi. I dettagli non sono ancora chiari, ma quello che è certo è che tale patto è riuscito a porre fine al più grande digiuno collettivo delle carceri israeliane. A mediarlo è stato l’Egitto che lo scorso ottobre aveva già aiutato Tel Aviv a raggiungere un accordo con Hamas per il rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit.

Il digiuno politico ha quindi registrato un primo successo, dando coraggio a quei palestinesi che da anni portano avanti una forma di resistenza non violenta. “La Nakba non è un evento congelato nel passato. È una realtà quotidiana che, grazie alle sue profonde radici storiche, ha dato a questo sciopero un valore particolare” ha scritto il 15 maggio sul sito di Al-Jazeera Richard Falk, inviato speciale delle Nazioni Unite in Palestina. “Il processo di pace non sta compiendo alcun progresso, ma si può dire che nelle carceri israeliane sta accadendo moltissimo. Questo digiuno ha dimostrato a tutti che la Palestina non scomparirà dalla storia.”