Una domenica a Parigi alla Brasserie Lipp di Saint-Germain de Près. Al primo piano si incontra un gruppo di filosofi e artisti neri: nasce qui, in questa riunione, la decisione di dar vita, come avverrà subito dopo, in rue Henri-Barbusse, a “Présence Africaine”. La rivista, che conta già precedenti illustri tra i periodici francofoni a-nimati da intellettuali neri, e che diverrà poi anche casa editrice, è diretta da un giovane intellettuale del Senegal, Alioune Diop. È il 1947.
Nata con l’idea di riunificare come figli dell’unica madre Africa gli intellettuali neri provenienti da diversi paesi e continenti, la rivista è destinata a svolgere per alcuni decenni un ruolo culturale rilevantissimo in Francia e in tutti i paesi dell’allora universo coloniale, non solo francese. L’imponente primo numero, con l’effigie in copertina di una maschera africana, raccoglie nomi illustri, senz’altro i più illustri della cultura francese di quegli anni (Sartre, Gide, a cui si deve l’introduzione di questo primo numero, Mounier, Camus, Michel Leiris, i maestri della nuova etnologia come Monod e Balandier), ma soprattutto nomi cruciali del pensiero euro-africano francofono e non: Sénghor, Césaire, Richard Wright, Paul Hazoumé. In questo stesso numero viene recensita la nuova edizione del Cahier di Césaire, manifesto poetico della fase surrealista della Negritudine. Peraltro, con la pubblicazione di Filosofia bantou di P. Tempels, introdotto da un’entusiastica presentazione di Alioune Diop, su cui tutti gli intellettuali africani prendevano posizione, era partito negli stessi anni il dibattito da cui sarebbe nata la filosofia africana del Novecento propriamente detta. Questo testo, che sarebbe stato poi letteralmente fatto a pezzi dalla maggior parte dai filosofi africani, presentava comunque al mondo l’inaudita affermazione che l’uomo africano era capace di filosofia.
Di lì a pochi anni, nell’Aula Descartes della Sorbona, un luogo altamente simbolico per gli intellettuali di un continente che la cultura europea aveva giudicato privo di pensiero razionale, si realizzava un grande evento: il primo Congresso degli Scrittori e degli Artisti neri. Era il novembre del 1956, nel pieno delle convulsioni rivoluzionarie e nazionali della decolonizzazione. Il Congresso riuniva i nomi più prestigiosi della cultura e della nascente politica africana e riceveva messaggi di auguri da ogni parte del mondo e l’omaggio degli esponenti di spicco dell’ambiente intellettuale europeo e americano dell’epoca. Scrive Lilyane Kesteloot nella sua Histoire de la littérature négro-africaine: “Il Congresso del 1956 fu certamente un evento molto emozionante. Si svolse alla Sorbona e già questo fatto era altamente simbolico. Un colpo d’occhio alle fotografie e alla lista dei partecipanti dà un’idea dell’ampiezza di questo convegno […]. Nel secondo Congresso, a Roma nel 1959, all’alba delle Indipendenze del 1960, c’era la grande riunione della diaspora: anglofoni, francofoni, lusofoni, che venivano dai tre continenti. I protagonisti di queste giornate furono Césaire, Fanon, Cheik Anta Diop”.
Un clima storico irripetibile
Sono i passi fondatori del risveglio nero, che nel confronto con il pensiero europeo – che all’Africa aveva rifiutato precisamente l’attributo del pensiero – ricostruiva i tratti di un’identità che era stata negata attraverso la schiavitù e il colonialismo. È un fiorire di studi e di prese di coscienza: uno dei grandi eruditi di questa generazione, lo storico, linguista e filosofo del Senegal Cheik Anta Diop, ripercorre attraverso una messe di studi impressionante la storia dell’umanità per scoprire (e documentare) in Africa, nell’Egitto nero, i fondamenti della civiltà che origina e feconda la culla dell’Occidente, la Grecia dei filosofi e dei matematici. È un’operazione volta non solo a creare un settore di studi, quello delle antichità africane, ma soprattutto a restituire al continente la possibilità stessa della storia: non si dà storia senza un inizio, e non c’è emancipazione di un popolo e di un individuo senza la costruzione di una coscienza. Mentre i contributi specificamente filosofici mettono a punto l’emancipazione degli évolués nei riguardi del “maestro” bianco, i leader delle incipienti indipendenze africane avviano una rilettura africana delle ideologie rivoluzionarie occidentali. I maestri della Negritudine, che rivelano al mondo il patrimonio dell’africanità, sono la causa – il che è meno noto – di uno dei nodi più interessanti di tutto il dibattito filosofico africano: esiste o no un’identità nera? Essa è un’essenza biologica-ontologica originaria (Sénghor) o un’invenzione del bianco (Fanon, Eboussi)? Esiste il Negro-africano, se non come membro di una “comunità di oppressi”? (Césaire).
Il sostegno fornito dai più prestigiosi intellettuali francesi era guardato inizialmente senza sospetto e in una prospettiva dialogica destinata ben presto a incrinarsi: le prime avversioni e prese di distanza esplicite si verificheranno in occasione di quella che resta, peraltro, una della maggiori operazioni di rilancio culturale operate dalla cultura europea nei riguardi di quella africana, ovvero le celebri prefazioni di Sartre all’Antologia della nuova poesia negra e malgascia in lingua francese a cura di Sénghor e poi ai Dannati della terra di Fanon. Il dibattito sul controverso contributo del cattolicesimo europeo all’epoca del colonialismo trovava una definitiva presa di posizione nel pronunciamento di Giovanni XXIII contenuto nel suo indirizzo di saluto al Secondo Congresso degli Scrittori e degli Artisti neri: “La Chiesa non si identifica in nessuna cultura, neppure con la cultura occidentale, alla quale peraltro la sua storia è strettamente legata, perché la sua missione appartiene a un altro ordine, quello della salvezza religiosa dell’uomo”.
È un quadro che dà la misura della rilevanza culturale che la prima fase della rinascita della cultura africana era riuscita a costruire e a imporre in un panorama intellettuale internazionale dominato da alcuni dei maggiori maestri di tutto il Novecento, e che riflette la struttura antietnica, aperta, antisettaria anche se rigorosamente e sempre più caratterizzata dal registro del Nero, che la comunità dei pensatori africani francofoni aveva manifestato nel sorgere delle sue produzioni iniziali: in un clima storico, bisogna dire, senz’altro irripetibile.
Nato in realtà da un gruppo di giovanissimi studenti di colore nella Parigi degli anni Trenta, questo imponente e fecondo movimento intellettuale sarà in grado, nel cuore del XX secolo, di catalizzare l’attenzione dei maestri del pensiero europeo e di realizzare una stagione di significativa rilevanza culturale internazionale: se si considerano gli eventi, le reazioni e le produzioni intellettuali di quegli anni, oggi che l’Africa si è marginalizzata sempre di più sugli scenari economici e culturali della globalizzazione, si resta stupiti. Educati alle scuole coloniali e, per quanto ci riguarda qui, alla lingua francese – come ironicamente avrebbe sottolineato uno tra gli uomini più geniali di questa generazione, Frantz Fanon – proprio attraverso la rivendicazione del diritto alla filosofia essi avrebbero dato vita a un dibattito specificamente africano e non solo: dotato di una fortissima capacità di indagine interculturale, esso era destinato a occupare buona parte del secolo, e poi a essere eclissato sempre di più nell’era del postcoloniale.
Il Novecento, “breve” in tutto il mondo occidentale, si rivelerà per l’Africa brevissimo. Nell’arco di pochi decenni l’Africa conosce il trapasso dalla schiavitù e dal colonialismo, nonché partecipa, senza che gliene venga tuttavia riconosciuto il merito, con un grande tributo di uomini e di sangue a due guerre mondiali. Ma dopo l’intensa stagione delle Indipendenze, dei filosofi e della Negritudine, al termine della guerra fredda e degli equilibri del Novecento essa, divenuta un continente fantasma, che nulla cambierebbe nell’economia mondiale se fosse cancellato dalla carta geografica, funestato da guerre ed epidemie, sembra sprofondare in una nuova notte (Eboussi).
Il Logos negato
La filosofia africana contemporanea ha indubbiamente un luogo di nascita, dal punto di vista concettuale e storico, ben preciso: la perdita di sé da parte dell’uomo africano e segnatamente della cultura africana provocata dal colonialismo e dalla sua metafisica eurocentrica; sarà infatti contro le linee portanti del pensiero dell’inferiorizzazione che si consoliderà negli anni centrali del Novecento la reazione filosofica dei pensatori africani. Il pensiero dell’inferiorizzazione rappresenta un aspetto scarsamente noto ma non certo di poca rilevanza all’interno del patrimonio culturale europeo, a partire dai suoi più illustri rappresentanti. In effetti, l’immenso prestigio intellettuale di coloro che sono stati i principali teorici europei dell’inferiorità nera non può non costituire motivo di riflessione.
“Nessuna produzione ingegnosa è possibile tra i Neri, né arti né scienze”: David Hume, uno dei fondatori del concetto di tolleranza e del razionalismo europeo, lo affermerà in pieno secolo dei Lumi in una “Nota” del saggio Sul carattere nazionale.
Ciò non deve stupire più di tanto se si considera che lo stesso Kant giudicherà che tra bianchi e neri la differenza di colore della pelle riflette (è facile intuire in che direzione) un grado diverso delle facoltà mentali; ma il vero compendio del giudizio europeo sul continente nero, che toglie in un sol colpo e irrevocabilmente all’Africa il privilegio della Storia e della Ragione resta un caposaldo del pensiero occidentale, le Lezioni sulla filosofia della storia he-geliane: “L’Africa non è un continente storico, non ha alcun movimento o sviluppo da mostrare. Se qualcosa in esso, nella sua parte settentrionale è propriamente accaduto, esso appartiene al mondo asiatico e europeo”. Il Novecento esordirà senza mutare parere: il Nero, afferma Lucien Levy-Bruhl, uno dei più raffinati antropologi contemporanei, presenta un’incapacità connaturata alla logica e al pensiero discorsivo.
L’usurpazione europea della Ragione (e della storia) africana si sviluppa poi assai concretamente nell’umiliazione della vita coloniale e nell’imposizione – che non prevedeva reali possibilità di assimilazione – della cultura superiore dei vincitori. “Il Nero delle Antille – noterà con ironia Frantz Fanon – sarà tanto più bianco, cioè si avvicinerà tanto di più al vero uomo, quanto più avrà fatto sua la lingua francese. Non ignoriamo che è appunto questo uno degli atteggiamenti dell’uomo di fronte all’Essere”.
È dunque contro questo vero e proprio Ratto della Ragione, contro questa insofferenza verso le differenze che diviene volontà di annientarle, che dagli anni Trenta del Novecento si sviluppa tra i Neri un dibattito d’idee da cui sarebbe nata la filosofia africana contemporanea. Così, chi si immerga nello studio delle espressioni filosofiche degli intellettuali africani non può sottrarsi all’inizio all’impressione di un immenso J’accuse: maturate nella prima metà del secolo scorso nella forma di una presa di coscienza di se stessi, rispetto alla negazione contro se stessi operata dalla cultura europea, esse prendono forma anzitutto come una reazione filosofica al pregiudizio. Comprendere di esistere con proprie e specifiche caratteristiche, diverse da quelle attribuite dal pensiero europeo, ha significato per questi filosofi anzitutto uscire dalla categoria del non: ovvero da una percezione del mondo dell’africanità come il negativo della civilizzazione – ciò che essa non è, ciò che non può essere. Una negazione, e non un’affermazione, come noterà uno dei più illustri tra di essi, il camerunese Fabien Eboussi-Boulaga, è all’inizio del processo di formazione dell’identità africana.
In questa vicenda intellettuale interculturale, tanto stimolante quanto oggi poco conosciuta in Europa, la filosofia appare come la principale imputata: portavoce delle istanze più profonde della civiltà europea e suo maggiore titolo di vanto, discrimine tracciato dall’Occidente sulla linea dell’umano-non umano, si è rivelata terreno essenziale e obiettivo polemico fondamentale del dibattito africano. Propriamente umano, come ben si sa, è per la cultura europea il filo-sofico in quanto tale, l’attribuzione del Logos all’uomo, la sua qualità di essere razionale; da questa alta enuncia-zione è seguita però, nei confronti della cultura africana, la più inaudita delle condanne, proprio in quanto il non-possesso del Logos è stato decretato come il tratto proprio dell’uomo africano. Non è questa la sede per ricostruire le linee della lunga storia del cosiddetto prelogismo, che codificato in forma di paradigma dagli studi sulle culture africane di Levy-Bruhl, e successivamente da questo abiurato, ha trovato ampie rispondenze all’interno del dibattito che stiamo considerando. In questo senso, i filosofi africani insegnano che la filosofia, strumento principe per la fondazione dell’identità, e per costruirla, può essere anche la via tramite cui essa viene perduta. A differenza di alcuni dei principali sviluppi del pensiero afroamericano, fortemente orientati in una prospettiva razziale, gli africani francofoni – riflettendo sull’umiliazione del Nero – affermano che in essa si rivela l’umiliazione dell’uomo in generale e che, secondo la parola del “migliore di quella generazione”, il leader dell’indipendenza del Ghana Kwame ‘Nkruma “l’emancipazione del continente africano è l’emancipazione dell’uomo”.
Alla ricerca di un universalismo autentico
L’umano è dunque, in definitiva, il tema principale della filosofia africana di lingua francese, una riflessione che si precisa a partire dalla constatazione che ciò che rappresenta una caduta, un sovvertimento dell’umano non è certo una caratteristica originaria del Nero, ma è il frutto, ovunque, di processi storici di oppressione e deculturazione. Tuttavia, la perdita dell’umano è anche una malattia che tacitamente colpisce gli autori di tali processi. È il discorso portato avanti da Fanon e Césaire, ad esempio, e richiamato da Sartre, sulla contestuale disumanizzazione che affligge i responsabili stessi di tali processi, su come la colonizzazione lavora a de-civilizzare il colonizzatore, e non solo il colonizzato. Questo resta uno dei contributi sempre attuali dell’umanesimo dei filosofi africani del Novecento nell’era della globalizzazione: il filosofo colonizzato si incarica di smascherare la degradazione umana e culturale che i vincitori della storia hanno inflitto all’uomo e dunque anche a se stessi.
La cifra di questo incontro in gran parte mancato con l’altro, peraltro, contrassegna singolarmente, e criticamente, tutta la riflessione africana: simbolo quasi di un confronto infelice, sulla scorta e differentemente da quella analizzata da Hegel nella Fenomenologia, dove il momento in cui l’autocoscienza fa davvero esperienza di se stessa si situa nell’incontro con un’altra autocoscienza e nel riconoscimento che dovrebbe conseguirne. Se non c’è costruzione di identità senza il riconoscimento dell’altro, infatti, il riconoscimento negato dall’Europa all’Africa (l’Africa non ha storia, non ha filosofia) non ha penalizzato evidentemente solo uno degli interlocutori. Peraltro, l’Europa dei filosofi che, da Nietzsche in poi, ha trascorso gran parte dell’età contemporanea a criticare se stessa e la propria Ragione, non ha saputo farlo che all’interno dei propri confini geografici e culturali: processando l’ego-centrismo della razionalità europea che finisce per sopprimere ciò che è altro da sé, ciò che è di fronte a lei, l’oggetto, le contraddizioni della realtà, ha mancato di svolgere tale disamina nel suo rapporto con l’alterità vera, il non europeo.
Alcuni dei maggiori filosofi africani (Fanon, Eboussi) insistono sul parallelismo delle conseguenze del trauma coloniale sulle due sponde del Mediterraneo; in effetti se l’identità africana, come nota sottilmente e come ampiamente argomenta lo stesso Eboussi-Boulaga, viene vista e introiettata come il doppio al negativo di quella europea, anche quella europea, se si segue la traccia della riflessione africana, può apparire, in un certo senso, come il negativo di quella africana. O meglio, grazie all’analisi sviluppata da questi filosofi, emerge l’altra faccia della civilizzazione europea, il suo lato oscuro, le contraddizioni nascoste nel cuore delle sue acquisizioni più preziose – l’ambiguità dell’universalismo dei sacri principi del 1789, validi solo per una parte dell’umanità, le incongruenze presenti nella filosofia europea dei diritti umani.
Non bisogna dimenticare che l’Africa si è confrontata con la civiltà europea sotto la specie assai particolare del colonialismo, e ha rinvenuto in essa degli atteggiamenti coloniali che vanno al di là della contingenza storica in oggetto. Certamente colonialismo e imperialismo sono un dato ricorrente nella storia dell’Europa e dunque anche nella configurazione mentale, antropologica e filosofica del Primo Mondo; è in questo senso, come notano opportunamente i filosofi africani, che la grande autocritica europea sui limiti della ragione è rimasta, essendosi applicata unicamente al rapporto con se stessa, brillante ma incompiuta: è una mancanza cui questi filosofi sopperiscono con profondità.
I numerosi e cruciali interrogativi che essi sollevano riguardano nondimeno tutta l’ampiezza universale della domanda filosofica: il rapporto tra soggettività e alterità, la missione della filosofia, lo sviluppo della dialettica negativa, la considerazione metafisica della storia, il richiamo a una comprensione teoretica dell’oggi.
A tale proposito, e non ultimi, di grande interesse sono gli spun-ti offerti, con precocità e preveggenza, dai filosofi africani circa gli interrogativi posti alla filosofia dalle prospettive etico-politiche della mondializzazione e della globalizzazione: esercitati all’interrogativo relativo ai rapporti tra universale (l’Europa) e particolare (la differenza africana), essi hanno intuito le possibile derive e le auspicabili alternative alla perdita di pluralismo effettivo che la globalizzazione può comportare e richiedere. In questo senso, l’edificazione e la difesa del Sé, dell’identità, da parte della cultura africana ha prodotto un’analisi relativa ai diritti del particolare di fronte all’universale – il diritto a non essere negato e umiliato, anzitutto – il cui fine ultimo non è certo, come ebbe a dire Césaire, una concezione carceraria dell’identità, un settorialismo, un etnicismo, una particolarizzazione: ma piuttosto la via per riguadagnare, al di fuori delle omologazioni e delle egemonie, la scena di un universale autentico, inclusivo e non esclusivo, in cui possa finalmente dispiegarsi e rendersi possibile “l’appuntamento universale del dare e del ricevere tra le culture” (Sénghor).
Dove sta l’Europa?
Cosa resta di quella stagione? Scomparsi alcuni dei protagonisti del secolo breve (Fanon, Sénghor); viventi e vigili, nonostante l’età avanzata, ma ignorati dall’Occidente, illustri e anziani filosofi che rappresentano la prima e la seconda generazione: l’ultranovantenne Césaire, divenuto improvvisamente noto ai giovani arrabbiati della banlieu per il suo rifiuto della visita di Sarkozy; l’anziano Houtondji in Benin, tra i pochi in grado di prendere posizione sulle convulsioni nazionaliste della Costa d’Avorio; emigrati negli anni peggiori delle dittature africane gli esponenti della generazione successiva. Da alcuni decenni, nulle o rarissime le edizioni francesi degli autori africani; le grandi operazioni editoriali portate avanti a metà del secolo particolarmente da Présence Africane segnano il passo nel contesto europeo e africano stesso; nulla, praticamente, è stato mai tradotto in italiano, se non sporadiche eccezioni, tra cui il Fanon che negli anni Sessanta le prefazioni di Sartre avevano lanciato in Europa (I dannati della terra, e Pelle nera, maschere bianche sono a tutt’oggi reperibili in italiano): non è difficile scorgere in tutto ciò un sintomo di quel processo di periferizzazione rispetto all’Europa che non solo a livello politico e economico, come è noto, ha colpito alla fine del secolo l’insieme delle produzioni provenienti dal continente africano. In effetti, tale marginalità, esplicitata dalla carenza di traduzioni per non dire di studi, sembra riguardare particolarmente l’ambito europeo, risentendo senz’altro dell’affievolirsi della funzione trainante giocata dalla Francia; mentre sul versante anglosassone si registra a tutt’oggi una certa ripresa dell’interesse relativo all’ambito filosofico africano: senz’altro sono assai più numerosi e recenti i lavori in questo settore usciti in lingua inglese, pubblicati prevalentemente dall’ambiente accademico americano.
L’Europa, a cui tanto spazio dedicano le analisi dei filosofi africani della francofonia, anche se in uno sforzo decostruttivo dei suoi presupposti filosofici etnocentrici; l’Europa a cui l’africano colonizzato ha tentato di somigliare (nella vana prospettiva, notava Eboussi, dell’”anche”: “anche noi abbiamo una filosofia, anche noi abbiamo l’arte, anche noi abbiamo un’anima”) e da cui ha cercato di emanciparsi attraverso una serie di piste illusorie, implacabilmente analizzate dagli stessi filosofi africani; l’Europa che tuttavia alcune delle voci più recenti preferirebbero ritrovare come interlocutore culturale nel panorama tutto uguale della globalizzazione; l’Europa rappresenta oggi, proprio lei, la grande assente in quel dialogo che, nel cuore del Novecento, in un’epoca di lotte e di speranze, alcuni hanno tentato di aprire dall’altra sponda del Mediterraneo. La vicenda di questi filosofi, con l’affascinante, irripetibile connubio tra vicenda personale ed elaborazione intellettuale che l’ha caratterizzata (si vedano le biografie, tra gli altri, di Fanon o di Sénghor) resta sconosciuta alle generazioni europee postcoloniali.
Si è trattato di una speranza interamente delusa? La tragedia del continente dopo l’amara disillusione seguita alle Indipendenze sembrerebbe provarlo. La corrosiva critica africana del cogito cartesiano può avere ancora interesse per una filosofia europea che non solo ha già decostruito quasi tutto ma ha anche perduto il suo predominio culturale nel mondo, e non parla più né francese né tedesco, ma quasi esclusivamente angloamericano? Mentre in Francia infuria la polemica sull’immigrazione e sulla riscrittura assolutoria della storia coloniale, e dopo il varo della controversa legge sulla laicità che impedisce il velo, nessuno ricorda più che il nero Fanon, laico e non musulmano, già negli anni Cinquanta aveva ammonito proprio a tale proposito che in ogni caso “la donna algerina non si libera su invito della Francia e del generale De Gaulle”.
Nonostante l’oblio, le problematiche analizzate in quegli anni non sembrano oggi meno vive in un contesto pure completamente mutato, che sembra dimostrare l’attualità se non la necessità di una rimeditazione dei rapporti tra l’Africa e l’Europa: ora che, paradossalmente e non senza forti incongruenze, il timore di perdere la propria identità sembra attanagliare l’altra riva del Mediterraneo: quell’Europa, oggi periferica, che con tanto orgoglio l’aveva imposta al resto del mondo. Vale la pena, forse, di ritornare su un patrimonio d’idee che aveva tematizzato sia pure in termini problematici il significato cruciale di questa relazione. Non fosse che per riascoltare, nel convulso e confuso contesto identitario del XXI secolo, la lezione che il filosofo nero (Fanon) aveva pronunciato nel vivo della lotta contro il coloniali-smo bianco: “Superiorità? Inferiorità? Perché non cercare semplicemente di toccare l’Altro, di sentire l’Altro, di rivelare l’Altro? La mia libertà non mi è dunque data per edificare il mondo del Tu?”.
Questo articolo è la sintesi di uno studio più approfondito dell’autrice sulla filosofia africana nel XXesimo secolo nell’area francofona, che è stato premiato con il premio «Paola Bianchi»