L’Islam tra tradizione e futuro
Marco Cesario 10 dicembre 2008

Alla radice della parola Islam ci sono tre lettere «l», «s», «m» che formano il verbo aslama «essere salvo, sottomettersi» e salam «pace». Da questo punto di vista l’Islam può essere considerato come una «sottomissione volontaria e pacifica alla volontà di Dio», uno sforzo lungo il cammino del divino che non è fatalità, ma anelito verso la libertà e responsabilità concreta verso gli uomini. La sottomissione non è cieca, perchè il Corano si rivolge soprattutto a «coloro che sono dotati d’intelligenza». La parola ragione (aql) ricorre 44 volte nel testo. La conoscenza (ma’rifa) e la saggezza (hikma) devono guidare l’uomo a realizzare sé stesso lungo la via del divino. Come sottolineano anche altri studiosi, la religione iniziale di Maometto stupisce per la sua razionalità e semplicità.

Essa propone, sin dai suoi albori, un monoteismo puro (tawhid, l’unicità divina) capace di spazzare via, già all’epoca di Maometto, l’idolatria delle tribù arabe pre-islamiche e di presentarsi agli occhi delle popolazioni superstiziose della penisola arabica come una religione più accessibile di quella ebraica (legata ad una precisa etnia e poco aperta al proselitismo), e più semplice di quella cristiana (all’epoca in preda a diatribe senza fine sulla natura del Cristo). Sin dalla sua apparizione l’Islam s’inscrive nella stessa tradizione biblica risalente ad Abramo. La leggenda narra infatti che la seconda moglie di Abramo, Agar, scacciata con suo figlio Ismaele dalla prima moglie, trovò rifugio nella penisola arabica, nella valle nota come Bekka (da cui derivò Mekka).

Abbandonata nel deserto col piccolo Ismaele, pregò Dio di ricevere dell’acqua. Una sorgente, nota come Zemzem, sgorgò in quel punto. Quando Abramo raggiunse Agar, ricevette l’ordine divino di innalzare nei paraggi un santuario di pietra in forma cubica (da cui deriva Ka’ba, Kasbah), la cui perfezione e austerità ricordasse la perfezione divina ed i cui angoli fossero orientati secondo i quattro punti cardinali. Nell’angolo orientale dell’edificio fu incastonata la famosa pietra nera caduta dal cielo che, come afferma Maometto stesso in un hadith, era « bianca » perché proveniente dal Paradiso, ma divenne nera a causa dei peccati degli uomini. La tradizione islamica s’inscrive nella stessa tradizione biblica ma si propone di restituirla alla sua purezza originaria invocando lo stesso Dio dei popoli del libro. Allah in arabo significa infatti «Dio» (anche i cristiani arabi invocano infatti Allah) e nel Corano non si parla di una nuova rivelazione. La rivelazione (wahy) trasmessa da Maometto e contenuta nel Corano afferma l’unità indissolubile di tutte le Scritture e vede Maometto come l’ultimo profeta in linea dopo Abramo, Noé e Gesù.

I due sensi della Jihad

Il Corano stesso afferma: «Discutete con i popoli del Libro soltanto nella miglior maniera. E dite(…) il nostro Dio ed il vostro Dio è lo stesso Dio unico ed è a Lui che ci sottomettiamo». Quando si parla d’Islam si fa riferimento spesso alla nozione di jihad. Il concetto si presta oggi a grande confusione a causa dell’interpretazione in chiave ideologico-politica che ne fece nel XX secolo Sayyd Qutb. Innanzitutto jihad non vuol dire «guerra» ma «sforzo». Secondo l’autore la dottrina classica distingue la grande jihad (jihad al akbar) dalla piccola jihad. La grande jihad non è la «guerra santa» ma è lo sforzo interiore contro la propria natura ribelle per migliorarsi, la disciplina morale quotidiana ed in definitiva la vittoria su se stessi.

La piccola jihad è invece quella che conduce ad azioni militari, ma soltanto quando l’Islam è minacciato. Il concetto di jihad nacque in un contesto storico preciso che vedeva Maometto ed i suoi seguaci in serio pericolo di vita. Dopo la morte dello zio e protettore Abu Taleb, Maometto ed i suoi seguaci furono perseguitati dai dirigenti dei potenti clan della Mecca che non vedevano di buon occhio la sua predicazione. Il monoteismo da lui professato rischiava di far scomparire il culto degli idoli, che aveva trasformato la Mecca in un centro religioso ed economico di primo piano. I musulmani perseguitati trovarono rifugio presso il Negus d’Abissinia, cristiano, che si rifiutò di consegnarli ai loro nemici.

La prima fitna

Secondo la tradizione, dopo aver ascoltato i musulmani, il Negus constatò che la loro fede proveniva «dalla stessa fonte di quella di Gesù Cristo». Sin dai suoi albori la forza dell’Islam risiedette nella umma, nella lingua araba e nella credenza ad un Dio unico. Ciò però non impedì la nascita di scismi e sétte già a 30 anni dalla morte di Maometto. A differenza dello scisma maggiore tra sunniti e sciiti – che prima del massacro di Hussein a Kerbala ebbe soltanto una valenza politica – la prima vera fitna (lacerazione) in seno all’Islam fu quella operata dai ‘kharigiti’, i «fuoriusciti» (da kharaja, uscire). Quando il califfo Ali, cugino del profeta, cercando di domare la ribellione del governatore di Siria, propose un arbitrato per evitare un inutile spargimento di sangue, un gruppo di seguaci di Ali, interpretandolo come un segno di debolezza del califfo, si rivoltò contro di lui.

Sbaragliati dal califfo, i kharigiti però non scomparvero del tutto. Al contrario, desiderosi d’imporre uno stato teocratico totalitario, si organizzarono in gruppuscoli estremisti ed assassinarono il califfo Ali davanti alla moschea di Kufa, nell’attuale Iraq. Con i kharigiti nasceva dunque una setta che per la prima volta (e contro i precetti dell’Islam) autorizzava a versare anche sangue musulmano. Da un ramo di questa setta nacque la setta radicale degli ‘azraqiti’, fondati dal persiano Nafi ben al Azraq che non solo consideravano gli « altri » musulmani come infedeli ma giunsero addirittura a praticare i primi atti di ‘terrorismo’ su beni e su persone, con assassinii e massacri che per la prima volta nell’Islam non facevano più distinzione tra uomini, donne o bambini. Di fronte a queste deviazioni dall’ortodossia, l’Islam riuscì sempre ad imporre la forza della tradizione e a far sì che questi movimenti restassero marginali ma non per questo meno pericolosi.

Il wahhabismo

Numerosi autori occidentali poi utilizzano ancora oggi il termine di wahhabismo per qualificare gruppi o tendenze dell’Islam radicale, soprattutto dopo gli attentati dell’11 Settembre. Secondo l’autore, il termine wahhabismo è già un controsenso dato che gli adepti d’Ibn Abdel Wahhab si definivano muwahhidum (monoteisti). La definizione sembra essere un’invenzione degli orientalisti dell’epoca per definire un movimento che conoscevano poco e male, ma anche della propaganda ottomana che voleva far apparire i tariqa mohammediya come una setta dissidente ed estremista. Mohammed Ibn Abdel Wahhab fu essenzialmente un riformatore ed un giurista dell’Islam. Vedendo l’estrema ignoranza e superstizione in cui versavano i popoli arabi nel XVIII secolo, predicò un ritorno alla dottrina del monoteismo puro (tawhid) appoggiandosi sul Corano e sugli hadith del profeta e respingendo tutto cio’ che è al di fuori di Dio (taghout).

Ibn Abdel Wahhab si interessò per la prima volta anche alla situazione socio-politica portando uno sguardo critico sull’endemica divisione e debolezza dei popoli arabi che vivevano sotto il giogo di un gigante dai piedi d’argilla, l’impero ottomano. Per lo sceicco era necessaria una riforma intellettuale, morale e politica, l’Islah. Nella sua opera principale, Kîtab al Tawid (il Libro dell’unicità) specificò anche il legame che doveva esistere tra religione e politica. Quando l’emiro Mohammed Ibn Saud (rappresentante della famosa dinastia saudita) decise di accordargli protezione, la storia dell’Arabia saudita e dell’Islam tutto intero sarebbero cambiate per sempre. Più tardi molti storici paragonarono questo gesto a quello di Federico II di Sassonia nei confronti di Lutero. Nel corso del XX secolo l’aggressività imperialista delle nazioni occidentali e l’avanzata del sionismo provocarono lo sviluppo di un Islam politico e la nascita di un’ideologia rivoluzionaria (saoura).

L’Islam politico

Di fronte all’estrema fragilità dei regimi politici arabo-musulmani occorreva una militanza politica che si rivestisse della tradizione più dura dell’Islam. Un esempio fu la nascita dei Fratelli Musulmani (Al Ikhwan al muslimun). Creata da Hassan Ibn Ahmed al Banna nel 1928, la confraternita si rivolgeva per la prima volta alle masse ponendo l’accento sul primato dell’azione politica. L’obiettivo era la fondazione di uno stato islamico ideale. Attraverso una struttura gerarchica ed una retorica populista, la confraternita si trasformò in partito armato e vide confluire forze sempre più radicali dopo la proclamazione dello Stato d’Israele. Fallito l’attentato a Nasser nel 1954, i Fratelli Musulmani furono travolti dalla repressione ed è in questo contesto che una nuova ideologia, più radicale, cominciò a costituirsi per opera del teorico Sayyid Qutb.

Il viaggio di Qutb

La miccia fu un viaggio di perfezionamento negli Stati Uniti nel 1948-50. Scioccato dalla cultura capitalista e materialista americana, dal razzismo, dal femminismo e dai gruppi d’influenza sionisti, Qutb si avvicinò alle teorie di Marx, Lenin e Gramsci. Di quest’ultimo Qutb apprezzava soprattutto l’idea del ruolo del partito rivoluzionario come forza capace di fare emergere gli intellettuali, unica classe capace di produrre una nuova ideologia per la società. Nel suo libro La giustizia sociale dell’Islam (1949), Qutb fa una sorta d’interpretazione socio-marxista della religione. All’interno dei Fratelli Musulmani, di cui diverrà uno dei maggiori teorici, Qutb trasformerà i principi egalitari già contenuti nel Corano in chiave marcatamente rivoluzionaria. In questo contesto il concetto di jihad verrà diretto da Qutb contro gli stessi governanti musulmani, rei di esser divenuti “empi” nei confronti della tradizione originaria dell’Islam. Nel testo “Perché mi hanno assassinato?”, scritto durante la sua reclusione e poco prima di essere giustiziato, Qutb pronuncerà una frase profetica: “Il movimento islamico inizia dalla base” (in arabo al qaida).

Dopo l’11 settembre

Gli attentati dell’11 Settembre hanno provocato la più grande ondata di islamofobia mai registrata in Occidente. Secondo Mohammed Ibn Ismael, ambasciatore d’Arabia Saudita in Francia, questi attentati hanno provocato presso l’opinione pubblica un amalgama pericoloso tra Islam e terrorismo. Il terrorismo è stato sempre utilizzato da organizzazioni politiche, da eserciti e servizi segreti per raggiungere determinati obbiettivi politici e non è dunque appannaggio di un’ideologia o religione particolare. Esistono terrorismi ideologico-politici, terrorismi etnici, settari, mafiosi etc. Invece di continuare a cercare legami tra estremismo rivoluzionario o terrorista e il pensiero dell’Islam estrapolando concetti (come quello di jihad o wahhabismo) staccati dal loro contesto storico, occorrerebbe invece interrogarsi sulle cause che conducono questi gruppi a scegliere una violenza nichilista.

Molti di questi movimenti, secondo Guy Spitaels, non fanno altro che inscriversi sulla scia dei movimenti anti-colonialisti ed anti-imperialisti e propongono, come i movimenti di estrema sinistra in Italia o in Germania a cavallo degli anni 70 e 80, una strategia di destabilizzazione. Ma non si può fare un discorso unico per tutti questi gruppi che hanno a volte obiettivi completamenti differenti. La teoria dello scontro tra civiltà non basta più comunque per spiegare la complessità e la drammaticità del momento storico che sia l’Occidente che l’Islam stanno attualmente vivendo. Soprattutto questo paradigma sembra essere oramai superato e occorre studiare il problema da un altro punto di vista. Forse proprio partendo dalla più antica tradizione religiosa, con una corretta e razionale interpretazione dei testi sacri (restituiti alla propria storicità) e soprattutto partendo dalla intrinseca unicità del messaggio divino e della tradizione che lega le tre religioni monoteiste (che risalgono all’unico Dio di Abramo), è possibile uscire dalle strettoie di un modello che affossa l’intelligenza, restituendo la ragione ad uno dei periodi più bui dell’umanità.