Shirin Ebadi, la battaglia dei diritti
Nicola Missaglia 5 agosto 2011

Nata nel 1947 a Hamadan, Iran, e presto trasferitasi con la famiglia, religiosa e appartenente al ceto medio, nella capitale Teheran, la giurista Shirin Ebadi è senza dubbio una delle voci femminili più celebri del riformismo islamico e dell’attivismo a favore dei diritti umani, dei diritti delle donne, dei bambini e dei rifugiati in Iran. Tale impegno le è valso il Premio Nobel per la pace nel 2003: è stata la prima donna musulmana e la prima iraniana in assoluto a ricevere questo riconoscimento.

Nel 1969, fu la prima donna a essere nominata giudice in Iran e nel 1975 diventò presidente dell’associazione nazionale dei magistrati iraniani, cariche dalle quali dovette dimettersi dopo la rivoluzione islamica del 1978/79, poiché secondo l’interpretazione radicale dell’Islam da parte della nuova leadership politica, le donne sono «troppo sensibili» per ricoprire tale ruolo. È da sottolineare che la stessa Ebadi, fortemente critica nei confronti del regime dello Shah, come molti altri intellettuali e attivisti che oggi sono considerati dissidenti dal regime iraniano, aveva sostenuto la rivoluzione islamica.

Successivamente, pur ottenendo già nel 1984 la licenza d’avvocato, non le fu dato il permesso di esercitare la professione fino al 1993, anno a partire dal quale cominciò però a impegnarsi immediatamente per la difesa e la promozione dei diritti delle donne, in un sistema giuridico in cui queste erano, e sono tutt’ora, fortemente discriminate.

Battendosi soprattutto per una riforma del diritto matrimoniale che permettesse alle donne di ottenere condizioni di divorzio e di affidamento dei figli più eque, molto presto Shirin Ebadi è diventata la protagonista di una serie di processi che hanno fatto molto scalpore in Iran.

In seguito, la giurista iraniana è stata in prima linea nella promozione della giornata internazionale delle donne in Iran e di una serie di manifestazioni di protesta contro il diritto di famiglia vigente nel paese. Oltre ad aver pubblicato numerosi libri, tra i quali sono da segnalare, tradotti in italiano, Il mio Iran. Una vita di rivoluzione e speranza (Milano 2006) e La gabbia d’oro. Tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana (Milano 2008), Ebadi ha fondato il Defenders of Human Rights Center in Iran e la Society for Protecting the Child’s Rights, associazioni non governative per la difesa dei diritti umani e volte, in particolare, a rafforzare lo statuto legale di donne e bambini nel suo paese.

Nel 1997 ha svolto un ruolo di rilievo anche nella campagna di sostegno del presidente riformista Mohammad Khatami, parallelamente al suo engagement costante – come avvocato e come attivista – per il sostegno dei dissidenti perseguitati dal regime. Dal 2009, anno in cui agenti del governo di Ahmadinejad fecero irruzione nel suo appartamento picchiando il marito e sequestrandole il Premio nobel conferitole nel 2003, vive in esilio a Londra, da dove continua a impegnarsi attivamente nella sua critica del sistema legale e giudiziario iraniano e in molte campagne per la difesa dei diritti dei cittadini iraniani.

Proprio dal 2009, è accusata in maniera palesemente pretestuosa dal regime iraniano di essere debitrice allo stato di numerose centinaia di migliaia di dollari, ed è proprio questa circostanza ad averla salvata da un probabile arresto durante il blitz in casa sua, poiché fu al momento dell’accusa che l’esilio «autoimposto» della Ebadi ebbe inizio. Malgrado la persecuzione, la giurista ha sempre espresso un forte attaccamento al proprio paese e all’Islam e in più di un’occasione ha criticato violentemente i difetti e gli errori politici del mondo occidentale.

Ricordiamo la sua indignata polemica contro le posizioni radicalmente e spesso ingiustificatamente anti-islamiche della scrittrice somala naturalizzata olandese Ayaan Hirsi Ali (vedi la nostra intervista del 9 marzo 2007). Oltre al Nobel, le sono stati conferiti numerosissimi riconoscimenti, tra i quali una decina di dottorati honoris causa da parte di università europee e statunitensi.