Sarajevo, la «Gerusalemme Europea» oggi
Matteo Tacconi 27 maggio 2011

Dal crocevia alla guerra

Porta dell’Occidente verso l’Oriente e dell’Oriente verso l’Occidente, crocevia di genti e fedi diverse, crinale tra Croazia cattolica e la Serbia ortodossa, tra il mondo cristiano in generale e l’Islam, che qui ha lasciato tracce importanti, Sarajevo e in generale la Bosnia, aperte anche a una piccola minoranza ebraica, hanno a lungo fatto sfoggio di tolleranza e multiculturalismo.

Questo modello ha superato più esperienze politiche: quelle imperiali degli ottomani e degli Asburgo, come quelle federative della “prima” e della “seconda” Jugoslavia, l’una monarchica e l’altra socialista. A tratti sono emerse tensioni tra le diverse identità, ma la Bosnia e Sarajevo hanno sempre tenuto, conservando la loro ricchezza di alfabeti, etnie e liturgie.

La guerra combattuta tra il 1992 e il 1995 ha cambiato tutto. Ha dilaniato il paese, messo uno contro l’altro i suoi popoli, provocato stragi e carneficine, causato la morte di 100mila persone.

Sarajevo è stato il luogo che più d’ogni altro ha patito le pene di quest’inferno. Per tutta la durata degli scontri armati la città è stata assediata dalle forze serbe. I cecchini hanno fatto fuoco sui civili, gli artiglieri hanno abbattuto case, palazzi e monumenti, molti dei quali risultano ancora sventrati. È il caso della biblioteca nazionale, appollaiata sulle riva della Miljacka (il fiume che taglia la città), che fu gravemente danneggiata nell’agosto del ’92. Quasi tutti i due milioni di libri e manoscritti antichi lì dentro custoditi, l’intero patrimonio culturale della Bosnia, andarono in fiamme.

La biblioteca non era un obiettivo strategico. Il suo bombardamento sottintendeva l’intento – non solo una prerogativa serba – di distruggere una cultura e di separare popoli che avevano sempre convissuto fianco a fianco. Crollò la biblioteca, crollò Sarajevo.

La Bosnia una e trina

La Bosnia di oggi, nella sua struttura amministrativa, ha incorporato questa filosofia. Gli accordi di pace di Dayton, firmati nel 1995, hanno spartito il paese in due entità etniche: la Republika Srpska e la Federazione croato-musulmana, a sua volta suddivisa in cantoni croati e cantoni bosgnacchi. La Bosnia odierna è una nazione una e trina, dove l’unico modelle vincente è quello – così lo chiamano da quelle parti – dell’omogeneizzazione. Serbi, musulmani e croati, dopo il 1995, hanno cercato di bonificare e purificare etnicamente i rispettivi territori, che ricalcano fedelmente le vecchie linee del fronte. Ci sono riusciti, mi spiegò due anni fa a Sarajevo Srdan Dizdarevic, allora presidente dell’Helsinki Committee for Human Rights di Sarajevo, andando a impedire il ritorno dei profughi, lo strumento che ai sensi degli accordi di Dayton avrebbe dovuto ridare alla Bosnia la linfa multietnica. «Nel primo dopoguerra – risfoglio il taccuino con le dichiarazioni di Dizdarevic – le élite politiche hanno tenuto alla larga gli sfollati con la violenza e le intimidazioni. Adesso i mezzi sono meno ruvidi, ma sempre efficaci. I partiti, che filtrano ogni aspetto della vita sociale, impediscono di trovare lavoro a chi non appartiene all’etnia che domina questo o quel contesto territoriale. Così nessuno ritorna e i pochi che lo fanno vivono in un regime di apartheid».

Una città a trazione musulmana

Sarajevo non è sfuggita a questo fenomeno. Adesso è una città in tutto e per tutto musulmana. I croati sono andati a vivere nella madrepatria o nei cantoni controllati dai partiti croati. I serbi si sono assiepati a Srpska Sarajevo (una piccola appendice cittadina), a Pale (ex roccaforte di Radovan Karadzic) o a Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska, passando da 140mila a 20mila unità. La loro partenza è stata colmata con l’arrivo dei profughi bosgnacchi, che fuggiti dalle aree serbe e croate della Bosnia, hanno fissato qui la propria dimora.

La nuova Sarajevo, al 100% bosgnacca, si misura nei tantissimi cimiteri – ordinati filari di bianche tombe musulmane – che sorgono sulle colline che circondano la capitale e che danno riposo ai resti degli ex combattenti, amplificando anche a livello d’impatto visivo il culto dei martiri.

Si misura, altresì, nelle nuove moschee e nelle nuove madrasse sorte in città, nel canto roboante dei muezzin, nell’osservanza delle prescrizioni religiose e nel velo, che un cospicuo numero di donne indossa.

Significativa, inoltre, è stata la modifica del calendario del Sarajevo Film Festival, la rassegna cinematografica più importante dei Balcani, la cui apertura è stata spostata di qualche giorno affinché non si sovrapponesse al Ramadan. Il fatto ha suscitato diverse perplessità, visto che sdogana una dicotomia: quella tra una manifestazione culturale che punta a superare gli steccati etnici nell’ex Jugoslavia (durante i giorni del Film Festival arrivano registi, attori e spettatori da ogni angolo dei Balcani) e quella che a sentire gli osservatori è la progressiva avanzata delle istanze islamiche. Anche se, beninteso, Sarajevo non è affatto quella “Teheran dei Balcani” che i serbi di Bosnia, propagandisticamente, descrivono.

Nessuno tocchi Tito

La nuova Sarajevo prende forma anche nella riscrittura della toponomastica e della storia locale. Il ponte intitolato a Gavrilo Princip, l’irredentista serbo che proprio a Sarajevo, nel 1914, uccise l’erede al trono d’Austria causando lo scoppio della Prima guerra mondiale, ha cambiato nome, in quanto considerato simbolo dell’orgoglio serbo. Oggi ha ripreso la vecchia denominazione: ponte latino (perché collega il cuore cittadino al vecchio distretto cattolico). Un altro serbo che ha fatto la storia di Sarajevo, Vladimir “Valter” Peric, coraggioso capo partigiano che nel 1944 liberò la città dai nazisti, è stato relegato all’oblio.

Tornando alla toponomastica, nel 2004 le autorità comunali decisero di intitolare una via al padre della nazione bosgnacca Alija Izetbegovic, artefice dell’indipendenza bosniaca e simbolo della resistenza all’assedio serbo di Sarajevo. La scelta ricadde sulla Marsala Tita, ampia arteria che corre nel centro cittadino, dedicata – come d’altronde indica il nome – a Josip Broz Tito, fondatore e capo indiscusso della Jugoslavia socialista. Ma il progetto saltò. Molti cittadini protestarono, sostenendo che, nonostante i suoi limiti, l’era jugoslava non andava rimossa così brutalmente, perché ai tempi di Tito Sarajevo era dopotutto una città migliore. Una città aperta e plurale. Una città che diversi sarajevesi provarono a salvare fino all’ultimo, manifestando a favore della pace e dell’unità. Tra le parole più commoventi spese allora ci furono quelle di Abdulah Sidran, il più grande poeta bosniaco, di origine musulmana. “Senza i serbi – disse – non potrei respirare; senza i croati non potrei scrivere; e senza essere me stesso non potrei vivere con loro”. Ma il suo appello cadde nel vuoto. La guerra arrivò lo stesso e devastò la Gerusalemme d’Europa.