Movimenti, forse indignarsi non basta
Nicola Mirenzi 15 marzo 2012

La parola d’ordine del movimento nato a Madrid, «non ci rappresentano», è stata soltanto una parola d’ordine. Nonostante l’indignazione, la democrazia rappresentativa ha fatto il suo corso. Nei fatti, la protesta non è riuscita a scalfire minimante l’esistente e nemmeno ad allargare la democrazia, come desiderava. Il parlamento eletto, al netto di tutti gli slogan, li rappresenta eccome: prenderà le decisioni in loro nome, nonostante essi possano non sentirsi d’accordo, e non l’abbiano votato. Perché la democrazia reale è cinica. Ma tutto sommato era quella che gli indignati invocavano nelle piazze. Democracia real, dicevano. Senza fare lo sforzo di immaginare un’altra democrazia, per esempio. O di trovare il modo più efficace per stare in questa, di democrazia.

Se si legge il libro di Pilar Velasco Non ci rappresentano. Il manifesto degli indignati in 25 proposte, ora tradotto in Italia da Tropea Editore (92 pp., 10 euro), si apprende nel dettaglio che le proposte del movimento su come cambiare la politica sono in realtà molto pragmatiche e definite. Chiedono un sistema più proporzionale,  delle norme anti-corruzione, delle leggi anti-casta, una maggiore divisione dei poteri. Scorrendo le pagine di questo libro, come anche quelle di Indignados. Consigli per una ri(e)voluzione (001 Edizioni, 128 pp., 15 euro), la sensazione però è quella di essere di fronte a un movimento che ha sbagliato completamente obiettivo. Perché nella crisi del capitalismo mondiale – che è innegabile ponga anche un problema di democrazia – i politici di tutti gli schieramenti sono stati identificati come i responsabili del tonfo dell’economia, del tenore di vita, della possibilità di immaginare il futuro.

Ma i politici non hanno affatto quel potere che gli si attribuisce. Le decisioni che essi prendono in parlamento, al riparo del loro stato nazionale, non sono più all’altezza di regolare ciò che si decide oramai a un livello veramente globale, altrove. Il loro potere è fuori dalla realtà, nel senso che le scelte che essi compiono separatamente, ognuno nel suo perimetro, non sono in grado di modificare una serie di meccanismi che essi subiscono come molti altri, e non hanno la possibilità né la forza di modificare. Il movimento americano di Occuppy Wall Street questo dato di fatto l’ha messo molto bene a fuoco. I ragazzi statunitensi potevano andare a occupare i palazzi del potere politico a Washington. Invece hanno scelto come obiettivo primo e principale Wall Street. Il centro della finanza globale.

La capacità del movimento americano di allargarsi e perdurare – sino al punto di costringere anche il presidente Barack Obama a utilizzare nel suo discorso sullo stato dell’Unione alcune delle loro parole d’ordine – non è dovuta solo alla brillantezza degli slogan (perché quanto a slogan, si scopre in questi libri, il movimento spagnolo è di una creatività straordinaria). Ma la dichiarazione d’esistenza politica «noi siamo il 99 per cento» è molto più precisa dell’indignazione del «non ci rappresentano». Per questo ha avuto più seguito, capace come è di parlare a tutte le persone che sono in quel 99 per cento e contenendo in sé un vasto programma politico. Nebuloso quanto si voglia. Ma capace di aprire porte e finestre, e far entrare aria fresca. Che, in fondo, è tutto quello che i movimenti possono fare.

Così, questo schiacciare le rivendicazioni dal lato della politica dei palazzi, come ha fatto il movimento spagnolo, è stato un limite alla diffusione di altre idee che pure erano presenti in quel movimento. «Se tu paghi il loro debito, loro devono pagarti il mutuo», diceva un cartellone durante la marcia del 15 maggio a Madrid. Affondando il coltello nella ferita della finanza. Il movimento 15M ha sviluppato in effetti tutta un’altra serie di ragionevoli proposte, come quella della tassazione delle transazioni finanziarie (ormai diventata una misura che chiedono persino alcuni dei più importanti governi dell’Unione Europea), che sono però finite in secondo piano, data la furia antipolitica da cui è stato preso.

Gli indignati spagnoli hanno saputo far circolare molto bene le loro idee sui social network, come hanno fatto pure i ragazzi delle primavere arabe e quelli di OWS. Twitter è stato un serbatoio incredibile di slogan, ironia, comunicazione. Tanto è vero che la sveltezza, l’intelligenza e la versatilità del loro linguaggio sembra quasi una conseguenza necessaria dei mezzi che hanno usato. Ma è evidente che i 140 caratteri con cui si deve dire ciò che c’è di nuovo su Twitter non possono essere sufficienti a elaborare una critica puntuale dell’esistente. Tra i libri che sono stati pubblicati manca in effetti qualcosa che vada al di là del semplice racconto delle proteste che si sono espresse (come è quello di Pilar Velasco) e i semplici spunti di riflessione (come è nel libro collettivo pubblicato da 001 edizioni). Ma se vogliono mettere veramente in discussione il sistema in cui vivono gli indignados farebbero bene a elevare la critica alla sua altezza. Altrimenti sono condannati a rimanere al loro (sotto)posto.

Immagine: cc furlin