Il Ministro dell’Educazione giapponese, Bunmei Ibuki, recentemente ha affermato che “l’imposizione da parte degli Stati Uniti del rispetto dei diritti umani” può “diventare una malattia”. In sostanza ha detto che l’accento sui diritti dell’individuo in stile occidentale potrebbe danneggiare il paese. L’organicismo della tradizione asiatica privilegia i doveri degli individui nei confronti della collettività rispetto ai loro diritti e, se si può parlare di diritti, quelli collettivi rispetto ai quelli individuali. In tale gerarchia, diritti collettivi di tipo sociale e culturale, come p.es. il diritto della nazione allo sviluppo economico, prevalgono sui diritti privati di libertà e su quelli di partecipazione politica. Questo richiamo ai “valori asiatici” si sostanzia in una forma di relativismo che porta a mettere in discussione l’universalità dei diritti umani. L’universalismo è il risultato di una forma di omogeneizzazione culturale che cela l’egemonia del mondo occidentale. I diritti umani debbono invece essere interpretati e applicati in modo diverso nelle diverse aree del mondo sulla base dell’epoca, della cultura, della situazione economica. La tradizione asiatica, in particolare, sarebbe incompatibile con i diritti umani di stampo occidentale, fondati sull’individualismo.
Il Ministro giapponese ignora che, al contrario di quanto si ritiene comunemente, i primi tentativi di integrare i diritti umani in un quadro normativo internazionale universale e vincolante non avvennero a partire dai paesi occidentali. Fu infatti proprio il Giappone, a cercare di far approvare alla Società delle Nazioni il 13 febbraio 1919 una prima norma che così stabiliva: “L’uguaglianza delle nazioni essendo un principio fondamentale della Società delle Nazioni, le Alti Parti Contraenti convengono di accordare, il più presto possibile, a tutti gli stranieri che abbiano la cittadinanza di uno Stato membro della Società un eguale e giusto trattamento in ogni riguardo, senza fare distinzioni, in diritti o in fatto, basate sulla loro razza o nazionalità”.
In senso stretto questa norma internazionale avrebbe posto tutti gli stranieri su un piano di eguaglianza. Non si trattava di proclamare l’uguaglianza tra i cittadini di ciascuno Stato contraente, o tra questi e tutti gli stranieri: si trattava di non discriminare i cittadini degli altri Stati membri, e solo essi, sulla base alla loro razza o nazionalità. Non era quindi una consacrazione a livello universale del principio di eguaglianza. Tuttavia il passo avanti che veniva proposto consisteva nell’abolire discriminazioni di razza e di nazionalità.
La proposta giapponese era certamente connessa alle frustrazioni dei giapponesi in relazione alle discriminazioni e umiliazioni cui erano esposti nei confronti delle autorità coloniali occidentali che a quell’epoca detenevano il dominio su molte parti dell’Asia e del resto del mondo, di fatto escludendo i giapponesi da ciò che questi consideravano casa propria. I principali e feroci oppositori a tale primo tentativo di riconoscere a livello internazionale il principio di eguaglianza tra individui – uno dei capisaldi della tematica dei diritti umani – furono tutti stati occidentali come l’Australia, la Gran Bretagna, la Grecia, la Polonia e gli Stati Uniti, tutti stati dei quali oggi molti riterrebbero si esprimessero naturalmente e spontaneamente a favore dell’ideologia dei diritti umani. La reazione del ministro degli esteri britannico di allora, Lord Balfour, alla proposta della clausola in questione, valga come dimostrazione del fatto che non era certamente vero che agli inizi del XX secolo l’idea del principio di eguaglianza – il fondamento stesso di tutti i diritti e le libertà – costituisse già un elemento costitutivo acquisito del pensiero giuridico e politico occidentale: “La nozione che tutti gli uomini fossero stati creati uguali è interessante, ma non ci posso credere; mi sembra difficile affermare che un uomo dell’Africa centrale sia uguale a un europeo”.
Tra i maggiori avversari vi fu anche il primo ministro dell’Australia, Billy Hughes, in ciò sostenuto dal primo ministro della Nuova Zelanda, William Massey. Che una clausola del genere costituisse una minaccia per la politica dell’immigrazione dell’ “Australia Bianca” era evidente, per cui come soluzione di compromesso si offrì la possibilità di prevedere eccezioni in caso di politiche immigratorie nazionali contrarie. In seguito i giapponesi proposero una versione molto più annacquata: per ironia della sorte la maggioranza dei delegati (11 su 16) votò effettivamente a favore dell’emendamento giapponese. Ma il presidente degli USA, Woodrow Wilson, che presiedeva la sessione del 1919, decise che l’emendamento non era stato accettato per il fatto che le questioni importanti dovevano essere approvate all’unanimità. Il rigetto del tentativo giapponese del 1919 da parte dei paesi occidentali, tra cui Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti, dimostra che immediatamente dopo la prima Guerra Mondiale molti paesi occidentali non volevano né potevano accettare un principio che avrebbe intaccato gravemente le loro pratiche discriminatorie nei confronti dei cittadini di altri parti del mondo, e che alla lunga avrebbe finito per minare anche le pratiche simili che essi tolleravano ancora all’interno dei loro sistemi nazionali. La sovranità nazionale e il connesso principio di non-interferenza negli affari interni degli stati si opponeva al rispetto pieno dei diritti umani per tutti.
Lo si può desumere anche dai commenti del delegato britannico alla Società delle Nazioni, Lord Robert Cecil, circa le ragioni per le quali i paesi occidentali dovessero respingere la proposta giapponese: "(Significherebbe) ledere la sovranità degli stati membri della Società delle Nazioni…(aprire) la porta a gravi controversie e interferenze negli affari interni degli stati…". Nel 1919 dunque la proposta avanzata da una delle poche potenze non occidentali, che avrebbe sicuramente avuto il valore di un potente fermento introdotto nella comunità internazionale, venne respinto soprattutto ad opera delle potenze occidentali, in quanto non erano disposte ad accettare l’idea che la sovranità dello stato potesse essere attenuata da imperativi morali provenienti dall’esterno. Si potrebbe anche supporre che alcuni paesi occidentali abbiano ancora qualche difficoltà ad accettarla: in parte la resistenza opposta dagli Stati Uniti all’istituzione di un Tribunale penale internazionale permanente è dovuta al fatto che gli Stati Uniti potrebbero perdere parte della propria sovranità e che i cittadini americani potrebbero essere sottoposti alla giurisdizione di “giudici stranieri”. In certo qual modo si tratta degli stessi argomenti usati contro la proposta giapponese del 1919 di bandire le discriminazioni razziali.
In effetti, l’accettazione diffusa dei principi generali sui diritti umani in Occidente non cominciava prima della seconda Guerra Mondiale. Senza dubbio l’avvento del nazismo e la sua sconfitta militare e ideale hanno favorito la fiducia nei diritti umani e di fatto un impegno a favore dei diritti umani compare esplicitamente già nell’Atlantic Charter del 1941, in cui si affermavano i principi fondamentali che tenevano insieme gli alleati contro la Germania di Hitler. Impegno, questo, ribadito con maggiore precisione dal preambolo della Charter delle Nazioni Unite del 1946 che già dall’art.1 preannuncia il rispetto dei diritti umani. Per una statuizione più chiara bisognava tuttavia attendere la Dichiarazione universale del 1948 e i due convenants successivi sui diritti economico-sociali e su quelli culturali entrambi del 1966.
Anche a questo proposito occorre sgomberare il campo da un equivoco frequente, secondo cui questi documenti rispecchierebbero essenzialmente dei valori occidentali, mentre in realtà costituiscono il frutto di diverse tradizioni, originate da varie parti del mondo. Dei 58 paesi che parteciparono alla genesi della Dichiarazione universale, 20 appartenevano all’America Latina, 4 all’Africa e 14 all’Asia. Perciò i paesi extraeuropei ebbero una parte ampia in questo processo. Al tempo della redazione della Dichiarazione universale non si riscontravano notevoli divergenze tra i punti di vista rappresentati, e ciò a causa del carattere generale della dichiarazione, né problemi sostanziali in relazione ai grandi principi. Il contributo offerto da paesi non occidentali era di notevole entità, e alcuni diritti – quali la tutela delle minoranze e l’autodeterminazione – pur non inseriti nella Dichiarazione universale, furono sollevati durante la redazione delle bozze della dichiarazione e infine formulati come diritto internazionale grazie agli sforzi compiuti da stati socialisti e non occidentali. Anche il diritto di uguaglianza, che molti ritengono sia intimamente connesso al pensiero giuridico occidentale, è stato inserito nella Dichiarazione soprattutto su iniziativa di stati socialisti e non occidentali, compresi quelli asiatici.
Inoltre, la Dichiarazione universale contiene una serie di diritti economici e sociali grazie all’impegno di stati socialisti e non occidentali, per cui in effetti la Dichiarazione è il risultato di un confronto e di un compromesso tra diverse tradizioni culturali, morali e politiche. E’ anche a causa della resistenza degli stati occidentali che la Dichiarazione universale non era destinata a diventare uno strumento giuridicamente vincolante. Persino alla fine della seconda Guerra Mondiale molti stati occidentali avevano difficoltà ad accettare l’idea che la sovranità dello stato potesse essere soggetta a una qualche forma di limitazione. Si potrebbe certamente sostenere che la sovranità statale assoluta, il principio filosofico di base che ancora oggi costituisce il maggiore ostacolo all’applicazione dei diritti umani, tradizionalmente è una costruzione del pensiero politico occidentale piuttosto che della tradizione asiatica o islamica. La Dichiarazione universale è il frutto di parecchie ideologie: il punto di fusione di varie concezioni dell’uomo e della società. In una certa misura essa ha esaudito la speranza espressa nel 1947 dal delegato cinese alla Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, secondo cui la dichiarazione dovrebbe conciliare Confucio e San Tommaso d’Aquino. Come far fronte oggi alle notevoli divergenze sostanziali che esistono riguardanti la natura dei diritti umani, e il loro contenuto specifico, l’origine della loro autorevolezza e il loro scopo, lo status controverso e la loro applicabilità stessa, la loro istituzionalizzazione formale, che vanno dalla difficoltà di giurisdizione alla mancanza di tutela adeguata, dai dubbi sul loro significato globale o nazionale a quelli che riguardano i soggetti, individui o gruppi, cui sono destinati?
Sicuramente, i diritti umani, così come normalmente concepiti nell’ambito internazionale, devono essere mediati attraverso la rete delle culture e delle situazioni storiche. In caso contrario, almeno per tutti coloro che fanno parte di culture diverse da quella occidentale (ma forse anche per questa), i diritti umani non saranno mai radicati seriamente, e ciò specie all’interno di società le cui classi sociali hanno subito un’occidentalizzazione forzata e frettolosa. Al tempo stesso, i medesimi diritti umani costituiscono un limite all’autoindulgenza culturale, cioè pongono un freno alla tentazione di pensare che tutto quello che proviene dalla propria tradizione sia in quanto tale automaticamente giustificato. Diritto internazionale ed ermeneutica culturale devono coesistere per avere pratiche in cui i diritti umani siano posti come limiti alle tradizioni, ma con il consenso delle società interessate. La mediazione tra queste esigenze è svolta dal dialogo interculturale, perchè i diritti umani così come la democrazia politica e il rule of law, non possono essere affermati dal centro per essere poi imposti nelle periferie del sistema mondo, ma che, al contrario, il loro successo dipende dal fatto che diventino patrimonio delle singole culture nazionali. E questo è la lezione che forse anche il Ministro giapponese dovrebbe imparare.