Khamanei vs Ahmadinejad e la battaglia interna per il potere
Antonella Vicini 17 febbraio 2012

Ma in realtà la frattura risale a molto prima, probabilmente al 2009, quando l’esito delle tanto discusse elezioni presidenziali costrinse l’ayatollah a scendere in campo e a benedire la vittoria di Ahmadinejad per mettere a tacere le proteste. Lo fece in più di un’occasione pubblica. Le proteste però non diminuirono, mentre l’ayatollah apparve più debole nonostante il potere supremo che il sistema politico della Repubblica Islamica gli conferisce. Ma Khamenei non ha mai avuto il carisma, né il sostegno del suo predecessore Khomeini, fin dalla sua nomina al posto di Hossein-Ali Montazeri, avvenuta non per meriti religiosi ma per equilibri politici interni.

Un check-and-balance made in Persia

La Guida Suprema è al centro del potere in Iran. Nominato dall’Assemblea degli Esperti, presiede le Forze Armate, le forze di sicurezza e ha la facoltà di designare i vertici del potere giudiziario, delle telecomunicazioni e della Guardia Rivoluzionaria, i Pasdaran istituiti nel 1979 e fedelissimi dell’ayatollah. A lui spetta il compito di delineare la politica dello stato e di garantirne l’osservanza. Ma se in cima alla piramide c’è lui alla sua base resta il popolo che con il suo voto nomina l’Assemblea degli Esperti, il Parlamento e il presidente.

L’articolo 6 della Costituzione nata dalla Rivoluzione islamica recita infatti: “gli affari del Paese saranno gestiti in conformità ai voti espressi dalla popolazione”. Ma in un sistema così complesso, fatto di veti incrociati, sbarramenti e bilanciamenti, se è vero che il Majles viene eletto direttamente dal basso è anche vero che i dodici giuristi che formano il Consiglio dei Guardiani, sei nominati dalla Guida Suprema e sei dal Parlamento, decidono quali fra gli aspiranti candidati possano presentarsi alle elezioni, politiche e presidenziali. Ciò vuol dire che la popolazione iraniana è sì libera di scegliere, ma solo tra un’offerta precostituita. Ne furono un esempio eclatante le presidenziali del 2005 quando su duemila nomi ne furono accolti soltanto otto; nel 2009 solo quattro su quattrocentocinquanta, mentre per le prossime politiche del 2 marzo su circa 5400 ne sono passati tremila.

In questo quadro si inserisce il ruolo del presidente, paragonabile a quello del capo del governo in una sorta di repubblica semi-presidenziale. A lui spetta il potere esecutivo per mezzo del suo gabinetto dei ministri, ma non ha voce in capitolo in altri settori fondamentali come sicurezza e giustizia che restano prerogativa della Guida Suprema. È forse per questo che una figura come Ahmadinejad, esterno agli apparati clericali che nel 2005 da ex sindaco di Teheran ha sconfitto inaspettatamente gli avversari, grazie al sostegno di una parte degli apparati militari, in particolare dei Pasdaran, potrebbe essere diventato ingombrante per l’ayatollah Khamenei.

La crisi del presidente e le pedine sulla scacchiera

Per la prima volta nei trentatré anni della Repubblica Islamica, il presidente in carica è stato convocato dal Parlamento per chiarire alcune questioni di malgoverno di cui è ritenuto responsabile. Ahmadinejad risponderà a un’interrogazione sulla sua gestione della crisi economica e su alcune faccende di politica estera e interna. Un chiaro segnale di mancanza di sostegno da parte della Guida Suprema che giunge a poche settimane da un voto che delineerà gli equilibri interni dell’assemblea monocamerale iraniana.

Già in passato, alcuni deputati avevano provato a convocare il presidente Ahmadinejad in parlamento, ma in quell’occasione ricevettero il veto dell’ayatollah Ali Khamenei. Oggi, dopo lo scontro dello scorso aprile sulla destituzione del Ministro dell’Intelligence Islam Heydar Moslehi, le cose sono andate diversamente. Il casus belli fra i due sono state le dimissioni di Moslehi volute dal presidente e la sua parziale riabilitazione (perdendo però il portafoglio) solo grazie alle pressioni della Guida Suprema e del voto del Majles.

I parlamentari che hanno richiesto l’audizione del presidente lo ascolteranno anche sulla concessione di alcuni finanziamenti per la costruzione della metropolitana di Teheran e di altri settori del trasporto pubblico. Anche in questo caso furono delle dimissioni (aprile 2001), quelle del capo della Metro iraniana Mohsen Hashemi, a rilevare importanti crepe, anche perché Mohsen Hashemi è il figlio dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani (sconfitto alle scorse presidenziali) che dal 2009 sta facendo una strenua opposizione contro Ahmadinejad.

C’è poi un terzo nome tra la Guida Suprema e il presidente che ha fatto scoprire le carte. È quello di Esfandiar Rahim Mashaei, uomo di fiducia, nonché consigliere ed ex capo del gabinetto presidenziale. Ex perché a maggio scorso è stato sostituito a causa delle pressioni giunte dagli ambienti religiosi che non gradivano le sue posizioni considerate “deviate”. Mashaei non è mai piaciuto all’ayatollah Khamenei che nel 2009, con una lettera aperta, lo ha fatto rimuovere dall’incarico di vice-presidente. Colpire lui equivale però colpire lo stesso Ahmadinejad, legato a doppio filo al suo consigliere-amico che è anche il suo consuocero.

I problemi, dunque, non riguardano semplicemente la gestione della “cosa pubblica” o il rifiuto di concedere 1 milione di dollari per ampliare la rete dei trasporti cittadini, ma hanno a che fare con un braccio di ferro più ampio che si sta consumando tra Parlamento, vertici religiosi iraniani e presidenza, in cui ministri e viceministri (è il caso anche di Muhammad Sharif Malekzadeh che ha dovuto lasciare il gabinetto degli Esteri su pressione del Majles e che dopo due giorni, a fine giugno, è stato arrestato con l’accusa di corruzione) vengono spostati come pedine sulla scacchiera.

Questione di spazi

In Iran tra i sostenitori della Guida Suprema si è cominciato a parlare di un movimento deviazionista, “jaryane enherafi” in farsi, cioè di un movimento di coloro che hanno perso la strada giusta rispetto a quanto prescritto dallo Stato islamico. Ma visto da fuori, tutto questo appare molto semplicemente come una lotta per mantenere il potere, in un momento in cui all’orizzonte si profilano cambiamenti inevitabili. Da un lato, infatti, c’è la fine mandato di Ahmadinejad che non è più rieleggibile; dall’altro c’è una Guida Suprema le cui condizioni di salute non sono buone (già nell’autunno del 2009 Ali Khamenei era stato dato per morto) che ha visto il presidente e i gruppi a lui legati ritagliarsi uno spazio sempre più ampio, ben oltre il clamore mediatico suscitato dalle dichiarazioni provocatorie dell’ex sindaco di Teheran. Qui si tratta dell’enorme capacità di penetrazione di una parte dei Pasdaran e dei Basij negli istituti statali, parastatali, economici iraniani attraverso le bonyad (le fondazioni del “welfare islamico” che formano una rete capillare nel Paese).

Anche per questo, Khamenei, lo scorso autunno, a Kermanshah, ha detto chiaramente che attuare una riforma del sistema parlamentare che elimini la figura del presidente non sarebbe un problema. In questo progetto, a sostenerlo c’è il capo del Majles Ali Larijani, ex negoziatore per il nucleare e uomo vicino al clero, ma come ha ricordato l’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani tutto questo“sarebbe contrario alla stessa costituzione iraniana”.

Immagine: Parmida 76 (cc)