Cinque o sei ore al giorno spese a organizzare la doccia per tutti i membri della famiglia. Un paio di tragitti a piedi per raccogliere l’acqua necessaria e cinquanta – sessanta minuti per riscaldarla, facendola bollire sui fornelli. Infine rampe di scale per portarla nella stanza da bagno, stando attenta a evitare che l’acqua bollente esca dalla bacinella, macchiando il braccio con l’ennesima ustione. Questa la routine che deve affrontare quotidianamente una donna che vive a Madinat al-zabaleen, il quartiere del Cairo dove risiedono i raccoglitori di spazzatura.
I loro genitori sono arrivati nella capitale più di cinquant’anni fa, lasciando le oasi dell’alto Egitto dalle quali provenivano con la speranza di trovare lavoro nella metropoli. Giunti nella capitale però non hanno trovato nulla per loro e si sono visti costretti a dedicarsi alle stesse attività che i loro avi realizzavano nella regione di origine: raccogliere la spazzatura casa per casa, per ricavare da questa il necessario per sopravvivere.
Per smistare manualmente il 90% per cento della spazzatura prodotta dai diciotto milioni di abitanti del Cairo qui lavorano tutti. Affinché la catena di montaggio funzioni, tutti i membri della famiglia devono partecipare. I rifiuti sono raccolti quasi sempre dal padre di famiglia che, accompagnato dal figlio più grande, mette sul suo carretto tutta la spazzatura dell’area che gli compete e la porta a casa sua, in una strada di Madinat al-zabaleen, dove la moglie dirige il lavoro dei figli più piccoli che, calandosi letteralmente all’interno dei sacchi di immondizia, estraggono tutto quello che può essere riciclato: plastica, legno, carta, alluminio. Ogni singola cosa che si ricava viene venduta a industrie interessate ad acquistare questi materiali e il restante si utilizza per sfamare gli animali allevati nel cortile di casa, altra importante fonte di ricchezza.
Camminando per le strade di questa città, si fa fatica ad abituarsi all’odore acre che invade i vicoli, al fumo che si vede nel cielo, alle mosche che ronzano attorno ai materassi dei bambini ai margini della spazzatura e alle precarie condizioni igieniche nelle quali si vedono vivere queste famiglie, per la maggior parte di religione copta. Cercando però di andare oltre quanto è visibile a occhio nudo e calandosi nella quotidianità di questa gente, si rimane sorpresi del loro incredibile ingegno, arma che consente loro di trasformare la spazzatura nella loro prima e unica fonte di ricchezza, il bene che permette loro di sopravvivere con quanto viene buttato da chi sta meglio.
Gli zabaleen sono diventati un modello di risposta ecologica al problema dello smaltimento dei rifiuti perché tutto quello che entra in questo girone dell’inferno compie un viaggio che sembra purificarlo. Nel mondo industrializzato, quando un oggetto è buttato a terra finisce la sua vita, viene compresso da una macchina e spesso non se ne ricava nulla, se non fumi tossici. Qui invece si riesce a riciclare il 90% del materiale raccolto e l’impatto ambientale è decisamente diverso.
“Se non ti ingegni nella vita non fai nulla, finisci per essere al servizio di chi, per farti sopravvivere, ti rende suo schiavo” dice Hanna Fathy, un giovane ragazzo del quartiere dall’inglese impeccabile. “Non l’ho mai studiato a scuola, sono un autodidatta. Da anni la sera mi chiudo in camera e mi esercito con la televisione, internet e alcune letture” aggiunge questo ventisettenne diventato uno dei volti più celebri della città per aver avuto il coraggio di cercare un’alternativa al suo futuro segnato. “Dopo essere nato e cresciuto nella spazzatura ho capito che dovevo trovare un’opzione migliore per la mia esistenza, non potevo continuare a vivere per smistare spazzatura. Ho iniziato a pensare a come migliorare la quotidianità della mia gente e dopo aver terminato i miei studi ingegneristici ho deciso di mettermi alla prova.”
Il test Hanna l’ha superato non appena ha incontrato Thomas Taha Rossam, un ingegnere ambientale arrivato al Cairo dagli Stati Uniti per realizzare una città solare che potesse migliorare le condizioni di vita degli autoctoni. Con fondi erogati dalla Casa Bianca, Thomas e Hanna hanno montato trenta pannelli solari sui tetti delle famiglie più bisognose. Con meno di cinquecento euro si costruisce un impianto in grado di riscaldare duecento litri di acqua al giorno, quanto basta a soddisfare il bisogno di quindici persone e a sollevare le donne da una delle più grosse fatiche quotidiane. “Per essere raccoglitori di spazzatura servono solo i muscoli, per fare altro invece serve l’ingegno umano” aggiunge Hanna che ha appena concluso un tour in diverse località del mondo, dove ha insegnato come sfruttare i raggi del sole per produrre energia.
Questo non è tutto, Hanna ha anche trovato il modo di trasformare gli scarti della spazzatura dai quali non si riesce a ricavare nulla in prezioso gas che può alimentare le cucine delle abitazioni della zona. Oltre ai pannelli solari, sul tetto di casa sua ha montato un recipiente nel quale raccoglie le feci degli animali che, alimentate di acqua ed esposte al calore proveniente dal sole, creano un ambiente fertile alla crescita di batteri. Nutrendoli di rifiuti organici questi germi sono in grado di produrre gas che, attraverso apposite condutture, arriva in cucina. Bastano due chili di rifiuti organici per ottenere due ore di gas. “Voi in Europa i vostri rifiuti li bruciate, noi ci abbiamo costruito la nostra esistenza” fa notare Hanna.
“In molte parti del mondo ci sono scienziati che studiano come realizzare queste cose seduti dietro le loro scrivanie. Qui ci siano arrivati con la pratica e la ricerca, cercando ricette che potessero funzionare – dice Hanna, sorridente, ma affaticato dal lavoro quotidiano. Voglio andare all’estero a studiare quello che altri hanno già scoperto per tornare qui e realizzarlo. Ma ora per noi in Egitto è un periodo difficile” conclude, mostrando il polso tatuato con la croce copta che contraddistingue quasi tutti i cristiani che vivono nei dintorni. “Credo che Dio voglia solo il meglio per il nostro paese. Ci sono milioni di persone che pregano per noi, la nostra storia non può finire male – sussurra con gli occhi lucidi. Da grande, Cristiano, mio figlio, non sarà un raccoglitore di rifiuti. Sono sicuro che avrà un futuro diverso. ”
Azzurra Meringolo svolge un dottorato di ricerca presso l’Università di Roma Tre ed è autrice del libro “I ragazzi di piazza Tahrir”, Clueb edizioni, giugno 2011