Non chiamarmi zingaro. Viaggio nel silenzio della discriminazione
Alessandra Spila 3 febbraio 2009

Rom e sinti hanno finalmente modo di dire la loro, di parlare di sé come credono e soprattutto di offrire un altro punto di vista della loro mancata integrazione, di cui troppo spesso sono accusati in modo insensato. Ma l’aspetto che più colpisce è che, sebbene le storie delle persone che Petruzzelli incontra siano drammatiche, esse riescono comunque a restituire il senso del pregiudizio e della discriminazione senza mai scadere in un facile vittimismo. Riescono, anzi, a pulire la visuale da molte storture – a partire, come diceva appunto Matvejevic, dalla stessa accezione negativa attribuita alla parola “zingaro” – che rendono impossibile un approccio a un popolo a cui è stata sottratta da sempre la possibilità di esprimere la propria identità e far conoscere la propria storia.

Ecco dunque che, al posto dei protagonisti di violenze e di efferatezze varie a cui ci ha abituato la cronaca nera (e i mass media in generale), abbiamo finalmente l’occasione di imbatterci in alcune figure di segno opposto, che Petruzzelli scova con naturalezza nella sua coraggiosa esplorazione. A partire dalla prima insegnante rom dell’Albania, che racconta come abbia dovuto rinunciare all’amore per poter realizzare il suo sogno di studiare, fino al più famoso cardiochirurgo della Bulgaria, che per proteggere la sua professione preferisce non rivelare pubblicamente di essere rom. E accanto a queste vicende se ne affiancano altre meno emblematiche, ma altrettanto significative. Tutte sempre immediate, dirette, senza imbellettamenti letterari.

Il libro di Pino Petruzzelli non può che essere considerato perciò, e a ragione, un vero e proprio viaggio alla ricerca dell’altro, al di sopra di ogni latente giudizio e pregiudizio sulla differenza. Un viaggio che ha il valore di iniziare proprio da un episodio di vita quotidiana che coinvolge persone comuni, e che trova la sua giusta conclusione, come in un passaggio graduale, in una prospettiva più ampia, ovvero in quella parte della storia che ancora oggi pochi conoscono. Dai 500mila rom e sinti uccisi nei campi di concentramento nazisti («il porrajmos, il divoramento come lo chiamano loro»), alle crudeltà avvenute nella civilissima Svizzera con la fondazione Pro Juventute (rievocata grazie all’incontro con l’autrice di Steinzeit, Mariella Mehr), passando per i partigiani sinti e rom che non sono stati mai ricordati in quanto tali. L’ultimo, ma non meno importante, pregio da segnalare di Non chiamarmi zingaro sta nella sua “bibliografia” finale, che l’autore dedica alla cultura rom, dove oltre a saggi e romanzi vengono indicati anche film e siti internet da consultare.