Sogni e memorie di un immigrato in pensione
Alessandra Spila 21 maggio 2008

L’appensione diventa allo stesso tempo il momento di riscattare una vita fragile, trascorsa senza farsi troppe domande, rincorrendo l’unico desiderio considerato realizzabile: quello di tornare nel villaggio natale, ancora senza elettricità né acqua, e costruire una grande casa in cui raccogliere moglie e figli, ormai dispersi nella modernissima e alienante Francia. Il protagonista di Ben Jelloun appartiene a un dramma contemporaneo in cui l’amarezza si fonde alla poesia, dove le vicende del singolo diventano uno spaccato frastornato della nostra epoca. Mohamed incarna infatti non solo l’immigrato emarginato nel paese europeo (Lafrancia come la chiama lui), nella periferia parigina delle Yvelines, ma anche il maghrebino che guarda gli africani dalla pelle nera dall’alto in basso, che riconosce che il «razzismo è dappertutto», anche fra gli ultimi, e che rifiuta con ostinazione l’integrazione non chiedendo mai la cittadinanza francese, convinto che musulmani e cristiani non possano capirsi in alcun modo.

Con gli occhi di Mohamed, Ben Jelloun ci consegna anche una lente di ingrandimento per osservare con sguardo disincantato un mondo ipocrita, governato dalla legge del bisogno reciproco. Come si legge nelle parole amare con cui incoraggia la moglie spaventata da una incomprensibile politica xenofoba: «Stai tranquilla, le ho detto, Le Pen ha bisogno di noi, altrochè, immaginati questo paese ripulito dagli immigrati, allora non potrebbero più dire che siamo la radice del male, dell’insicurezza, che approfittiamo della previdenza sociale e degli assegni familiari». Ma Mohamed capisce pure che oltre ai pericoli dichiarati ce ne sono di più subdoli: «So bene che in questo paese ci sono altri Le Pen, magari non parlano con lui ma non ci amano affatto». A questo analfabeta, che firma disegnando un piccolo albero, non sfugge neanche che il vero problema oggi non sono “loro”, la sua generazione di immigrati che per sopravvivere si è resa il più invisibile possibile, ma i loro figli che fanno scalpore perché vogliono vivere come gli altri cittadini pur non essendo davvero loro pari. Mohamed questo lo sa bene, lui che ha lavorato come operaio di una fabbrica di automobili senza mai farsi sfiorare anche solo dall’idea dello sciopero, che cercava di spiegargli il suo collega sindacalista polacco.

Il lavoro significa essere utili e non dare problemi agli altri, significa mantenere la famiglia. La stessa famiglia divisa da molto più di un’incomunicabilità tra marito e moglie o tra padre e figli, divisa da una frattura insanabile che contrappone i figli degli immigrati alle loro radici, rapiti ormai dalla Francia, da una mentalità altra e da un diverso modello di famiglia, ben lontano da quello che in Marocco «è come una colla opprimente». Il protagonista de L’ha ucciso lei è sempre stato solo, ha sempre tenuto per se stesso pensieri e sentimenti di cui non ha mai fatto partecipe neanche con la moglie, sposata giovanissima secondo tradizione. Nessuno in tutto il romanzo sembra capire Mohamed: nessuno dei cinque figli che rinnegano le proprie origini, né la moglie che guarda a lui con silenziosa rassegnazione, né i suoi connazionali che condividono con lui un destino di “esiliati”, ma dei quali Mohamed non apprezza i vizi e soprattutto teme un’identificazione. Nessuno ad eccezione di un altro alieno, un altro estraneo alla vita reale: Nabile, suo nipote, che a causa o grazie a un handicap mentale riesce ad amare Mohamed, senza giudicarlo. E che lo accompagnerà fino alla fine, in un epilogo straziante.