Yalla Italia, ridere da musulmani
Alessandra Spila 3 luglio 2007

Aspetti inediti, insomma, della realtà dell’immigrazione, che offrono uno spaccato meno scontato di quanto ci si aspetti di solito. Coordinati da Martino Pillitteri, vicepresidente dell’associzione italo-egiziana, i redattori – che parlano e scrivono in italiano, arabo e inglese – sono stati scelti all’interno del gruppo di ragazzi che seguono da tempo il progetto di integrazione portato avanti nelle scuole di Milano da Paolo Branca, docente di letteratura araba all’università Cattolica, nonché direttore del nuovo supplemento. “Yalla vuol dire ‘avanti’: si tratta di un invito a muoversi – spiega Branca – e sottolinea il dinamismo di questa comunità, troppo spesso vista in termini di vittimismo”.

Motivo ulteriore per affrontare altri temi ‘delicati’ dell’immigrazione araba – che saranno presto trattati nei prossimi numeri –, come il rapporto tra prima e seconda generazione di immigrati, matrimoni interreligiosi o la questione del velo. “Il velo, ma anche la moda e lo sport: sono tutti temi importanti, visto che tante cose non si sanno ancora di noi”, come ammette Sumaya Abdel Kader, 28 anni, nata a Perugia da genitori palestinesi, rappresentante dei Giovani Musulmani Italiani di Milano, e parte attiva della redazione di Yalla Italia. Molte poi le donne presenti, tanto da essere la maggioranza della redazione del mensile. Un altro modo per dare un’immagine della realtà araba che non sia solo terrorismo e fondamentalismo .

Ridere in arabo, alcune delle barzellette del primo numero di Yalla Italia:

• Un presidente arabo in carica ormai da moltissimi anni e ormai vecchio si sente chiedere: “Signor presidente, il popolo vuole sapere quando e dove terrà il discorso d’addio”. “D’addio?”, chiede lui con sorpresa. “E dove hanno intenzione di andare?”.

• Una donna libanese, una siriana e una sudanese sono in sala parto. Ognuna di loro partorisce un maschietto. Le infermiere però, molto sbadatamente, mettono i bambini nelle culle senza i rispettivi nominativi. Lo staff dell’ospedale decide quindi di affidarsi all’istinto materno di ciascuna delle neomamme. I medici mettono dunque i tre neonati in una stanza, invitano le donne ad entrare e riconoscere i loro figli. La donna libanese insiste ad andare per prima e anche da sola: “Non posso aspettare un minuto di più per abbracciare mio figlio e non voglio condividere questo momento con altre donne”. Entra quindi nella stanza e ne esce con il bambino sudanese. “Ma che cosa sta facendo signora? Quel bambino è l’unico che chiaramente non può essere suo perché chiaramente sudanese”. “Sì – risponde la donna libanese –, ma uno degli altri due è sicuramente siriano”, e corre via.

• “Dicono che Gesù fosse libanese. Le prove? Ha vissuto fino a trent’anni coi suoi genitori. Solo a trent’anni ha cominciato ad occuparsi degli affari del padre e sua madre pensava che suo figlio fosse un dio!”.