Madre Piccola, le esistenze ibride di Cristina Ali Farah
Francesca Giorgi 19 giugno 2007

Esistenze smarrite, ibride, in cerca di un’identità perduta fra il passato e il presente, prive, spesso, di una prospettiva futura. Il libro si snoda fra le voci di tre protagonisti, che alternandosi raccontano in prima persona la propria storia rivolgendosi a un interlocutore estraneo – una giornalista, un mediatore culturale, una psicologa – e poi a un congiunto. Barni, Domenica e Taageere appartengono alla stessa famiglia allargata e condividono la condizione di emigrati. Nei loro racconti sono presenti molti personaggi, che il lettore impara a conoscere lentamente attraverso i diversi occhi degli inconsapevoli narratori.

Domenica e Barni sono cugine, legate nell’infanzia come sorelle. Domenica è figlia di una donna italiana e di un intellettuale somalo spesso in carcere per motivi politici. Da bambina, vive con difficoltà la sua doppia identità, persino nel nome. È per questo che Barni la chiama Axad, “come il principio”. Trasferitasi in Italia con la madre, Domenica si trova ad affrontare la malattia psichica della donna, a cancellare il suo passato, a soffrire a sua volta di disturbi autolesionisti, a trovarsi per caso nella diaspora somala, a girare per il mondo per realizzare un documentario sui suoi connazionali. Fino a che non incontra Taageere, lo sposa, e poi…

Troppo difficile provare a raccontare la trama di Madre Piccola. Rispecchiando il percorso interiore dei tre protagonisti, il libro all’inizio è confuso, pieno di salti logici e dimensionali, scritto con un linguaggio colloquiale e duro. Come dice Barni alla giornalista che la sta intervistando: “Credo di sapere quello che pensa. Il mio è un modo concentrico di raccontare”. Dai nuclei interiori dei protagonisti fino alle vicende lontane della caduta di Siad Barre, della guerra civile, dell’emigrazione di massa. Sullo sfondo l’Italia, paese a cui i somali sono profondamente legati (tutti a Mogadiscio parlano un po’ l’italiano), vista all’inizio come approdo naturale per chi sceglie di fuggire e poi scoperta come una terra inospitale, dove è difficile trovare accoglienza per le leggi inadeguate e l’irresponsabilità di chi governa.

Solo nella seconda parte le vicende dei personaggi assumono finalmente contorni più definiti, acquistando un filo narrativo e conducendo il lettore alla comprensione: “È tempo di stringere nodi che sostengono senza strozzare – afferma Domenica nell’epilogo – Dove sono tutti? Troviamo ogni singola stella, recuperiamo il filo del discorso. La storia è rimasta ingarbugliata negli scontri, ma il bandolo si ritroverà, ne sono certa”. Madre Piccola è anche una storia di donne. Il romanzo è permeato di femminilità, che significa vita, forza, speranza. Tutte le donne sono in qualche modo anche madri, e i loro percorsi, seppure nelle condizioni più dure, possono sempre contare su una solidità di fondo, sulla speranza che è data dalla (ri)generazione nelle vite che vengono alla luce. Non così per gli uomini, che invece soffrono per la perdita di punti di riferimento e, soprattutto, della perdita del proprio ruolo all’interno di società che non riconoscono loro alcuna rilevanza.

Così Barni e Domenica, pur nelle difficoltà e negli smarrimenti, alla fine riescono a ritrovare il proprio equilibrio. Taageere, al contrario, rimane sospeso nel sogno della normalità, della paternità vista come autorità e realizzazione. Nel passaggio dalla cultura africana a quella occidentale, gli uomini perdono la sensazione di essere necessari, mentre le donne acquistano la consapevolezza di sé stesse. Eppure uomini e donne continuano a cercarsi reciprocamente. È una testimonianza, Madre Piccola, di un mondo sempre più vasto, fatto di sradicamento e mobilità, appartenenza e ricostruzione. Così descrive Domenica la vita della diaspora: “Essere, potevi essere ovunque. Per me, per noi tutti, era indifferente. Ti dovevi solo abituare alle insegne diverse, i prezzi diversi e ricostruire la mappa: mappa dei legami con gli altri e luoghi-snodi dove incontrarsi, dove telefonare, dove comprare, come perennemente trasportati nella bolla d’aria e dentro la bolla il nostro suono, il nostro odore. Suoni e odori così pungenti da coprire tutti gli altri. Alienandoci, vivevamo”.

Un libro prezioso da leggere tutto d’un fiato, per rimanere attaccati al labirinto di storie che vi sono narrate. Una ricerca che tuttavia meriterebbe di essere approfondita, e Cristina Ali Farah sembra avere tutte le carte in regola per farlo.