Attrarre il Nemico in casa propria. L’Isis e il fascino del messaggio apocalittico in occidente
Intervista con Domenico Tosini, di Emanuele Filograna 1 dicembre 2014

Le montagne della Siria come i Pirenei della Guerra Civile Spagnola? Quale il significato, sociologico e antropologico, delle partenze di militanti dai paesi occidentali?

La confronto è possibile. Anche se certe specificità ideologiche e altre attinenti al contesto politico dell’attuale ondata jihadista non devono far perdere di vista le sue peculiarità. C’è un aspetto di cui molti di noi, immersi nella secolarizzazione occidentale, non riescono a capacitarsi: il fatto che alcuni giovani (peraltro religiosamente poco o scarsamente istruiti, inclusi quelli di origine occidentale convertiti all’Islam) siano risucchiati dal fascino di un messaggio escatologico e apocalittico che ricorre nei proclami dello Stato Islamico con fini propagandistici e che si nutre delle presunte profezie di una grande guerra finale (localizzata proprio nel Levante) destinata a riscattare e rigenerare la comunità musulmana ed in particolare l’esistenza di tutti coloro che combatteranno dalla parte giusta (che per i jihadisti è ovviamente quella dello Stato Islamico e dei suoi alleati).

Quale capacità di reclutare combattenti stranieri ha concretamente l’Isis? Qual è il bacino di possibili reclutabili in Italia?

In aggiunta all’importanza della propaganda inneggiante alle profezie di cui abbiamo parlato poc’anzi, la capacità di reclutamento dello Stato Islamico (soprattutto nei Paesi islamici o tra le persone residenti in Occidente e provenienti da quei Paesi) fa leva anche su una complessa e ormai consolidata narrazione politica e religiosa (a lungo sperimentata con un certo successo anche da al-Qaeda e dai sui alleati per il reclutamento dei propri militanti), dominata da tre aspetti, riguardanti il dovere di ogni “buon” musulmano (ovviamente secondo i comandanti dello Stato Islamico) di impegnarsi attivamente nella difesa dei fratelli musulmani oppressi in vari contesti da: (1) forze non-islamiche (il cosiddetto “nemico esterno”, formato da Stati Uniti, Israele e dai loro alleati (si pensi all’occupazione dell’Iraq dal 2003, per non parlare della Palestina); (2) dai regimi al potere nei Paesi islamici e ritenuti apostati (il “nemico interno”, come nel caso di Assad in Siria); e (3) dalla minaccia che i jihadisti sunniti identificano con gli sciiti in generale (e che vedono incarnata ad esempio nel governo iracheno e nell’atteggiamento autoritario con cui si è finora rapportato alla comunità araba sunnita). E’ quindi molto probabile che, quanto più l’Italia e altri Paesi, come il Canada appunto, sosterranno direttamente o indirettamente interventi (ad esempio, gli attuali bombardamenti in Iraq e l’appoggio al governo iracheno) percepiti come azioni che favoriscono queste forme di oppressione, tanto più gli stessi Paesi saranno identificati come un bersaglio più che legittimo della lotta armata dello Stato Islamico e di al-Qaeda. A proposito di quest’ultima, infatti, non va dimenticato che, nonostante la rottura del 2013 con la leadership dello Stato Islamico, essa persegue autonomamente, con la propria rete transnazionale, gli stessi obiettivi politici attinenti ai tre fronti segnalati (contrasto rispetto al nemico esterno, a quello interno e al potere sciita).

Con riguardo ai modi e ai tempi dell’intervento occidentale in Medio Oriente lei ha affermato che “ogni politica è una politica locale”. Che cosa intende con questa espressione?

Mi riferisco ad alcuni fattori imprescindibili per la spiegazione dell’ascesa dello Stato Islamico. Forse non a tutti è chiaro che questo gruppo è il risultato di una metamorfosi dell’organizzazione nota come “al-Qaeda in Iraq”, affiliata alla rete di Osama Bin Laden e fondata nel 2004 da Abu Musab al-Zarqawi (leader fino alla sua uccisione nel 2006). Rinominata “Stato Islamico in Iraq” nel 2006, l’organizzazione aveva subito un forte indebolimento a causa dell’anti-guerriglia intrapresa nel 2007 dall’esercito americano (il cosiddetto Surge) per poi avere una progressiva rinascita sotto la nuova leadership di Abu Bakr al-Baghdadi. Il coinvolgimento nella guerriglia anti-Assad nella vicina Siria le ha permesso di occupare alcune località del Paese con una propria “succursale”, trasformandole in basi e campi di addestramento. Quanto all’Iraq, dopo il ritiro dell’esercito americano (dicembre 2011), lo Stato Islamico in Iraq ha lanciato una nuova offensiva, diretta a riconquistare alcune aree di cui aveva perso il controllo durante gli anni del Surge. Il successivo rafforzamento del gruppo (nel 2013 rinominato “Stato Islamico in Iraq e nel Levante” e nel 2014 “Stato Islamico”) è sfociato nell’avanzata dell’estate 2014, soprattutto grazie dal sostegno locale di una parte della comunità araba sunnita irachena (che era stata via via sempre più marginalizzata dal governo centrale iracheno), oltre che da un network di alleanze con alcune milizie sunnite già operative negli anni successivi al 2003 e con gruppi armati composti in parte da ex-militari del regime di Saddam Hussein.

Lo scenario che dal Medio Oriente conduce al cuore dell’Europa in che modo passa attraverso i paesi africani della fascia mediterranea? Le Primavere hanno dato solo frutti avvelenati?

Fatta forse eccezione per la Tunisia (che ha intrapreso un cammino indubbiamente difficile, ma con una probabile tendenza verso un maturo processo di democratizzazione), le altre rivolte arabe hanno dato luogo a mutamenti drammatici e pieni di insidie per la costruzione di un ordine democratico. Seppur in modi diversi, e ripeto, ad esclusione della Tunisia, gli altri Paesi arabi attraversati dal vento delle rivolte hanno visto l’affermarsi, in misura variabile, di condizioni propizie all’attecchimento di attori politici violenti ed estremisti. Da un lato, il collasso (Libia) o il forte indebolimento (Siria e Yemen) del monopolio politico dello Stato ha generato opportunità anzitutto logistiche per l’azione locale di varie milizie e gruppi armati – una sorta di stato di natura hobbesiano in cui sguazzano, tra gli altri, numerosi gruppi jihadisti (attivi ora più che mai in Libia, Siria e Yemen). Dall’altro, la controrivoluzione e la repressione attuate dai militari egiziani contestualmente e successivamente alla deposizione di Morsi, innescando un nuovo processo di radicalizzazione di frange jihadiste (in particolare nel Sinai) analogo a quello alla base della lotta armata di varie formazioni radicali durante gli anni dei regimi (autoritari e repressivi) di Sadat e Mubarak.

Che significato assegnare alla proclamazione del “Califfato” del giugno 2014 e come si è arrivati in poco più di tre mesi agli eventi del Canada?

La proclamazione dello Califfato è perfettamente coerente con uno degli obiettivi politici già perseguiti dalla rete di al-Qaeda: l’abbattimento dei regimi al potere nei Paesi islamici e ritenuti apostati (come dicevo, il “nemico interno” rappresentato ad esempio dal regime iracheno e da quello siriano di Assad) e la loro sostituzione con Stati basati sulla legge islamica (ovviamente secondo l’interpretazione radicale di al-Qaeda, dello Stato Islamico e di altri gruppi jihadisti). Il fatto che si sia arrivati in così poco tempo a questo risultato e agli altri avvenimenti internazionali cui stiamo assistendo dipende ancora una volta dai fattori attinenti al contesto politico locale (iracheno in particolare) e dalle interferenze in questo contesto da parte di alcuni Paesi occidentali (incluso il Canada).

L’attentato al Parlamento Canadese potrebbe essere, per i Paesi Occidentali, una di molte “notizie di sventura”?

L’attentato canadese deve senza dubbio indurre a stare in guardia. Ma paradossalmente è un tipico caso di profezia che si auto-adempie: allarmati dall’ondata di militanti jihadisti intenzionati ad unirsi alla campagna locale (in Iraq e Siria) dello Stato Islamico, vari Paesi occidentali hanno deciso di impedire le partenze e, nello stesso tempo, di bombardare le postazioni di coloro che sono visti come “fratelli-eroi” impegnati sul terreno iracheno e siriano. Il risultato non poteva (e non potrà) che essere il fatto di attrarre il nemico in casa propria, spingendo in altre parole alcuni di questi militanti a trasformare i Paesi di provenienza (come il Canada) in un nuovo campo di battaglia.