Dove il tempo è sospeso: storie di migranti nel CIE di Ponte Galeria
Ilaria Romano 9 luglio 2012

Al momento nel Centro di Identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, non lontano dalla Nuova Fiera di Roma, ci sono poco più di 150 persone. La capienza massima è oltre il doppio, circa 360 posti letto, e apparentemente non ci sono situazioni di allerta, in termini di sovraffollamento; eppure qui ogni singola storia meriterebbe di essere studiata e approfondita, perché i problemi di un migrante senza documenti vanno ben oltre il pezzo di carta che gli manca.

Qui ci sono madri che hanno i figli in altre città italiane, e che non vedono o sentono da mesi. Spesso sono loro stesse a non rendere nota la località in cui trovarli, perché temono di essere espulse insieme a loro, e nel tentativo di proteggerli si negano il diritto di stargli vicino, in qualunque modo. Ci sono persone che hanno scontato delle pene carcerarie, eppure non sono state identificate con certezza nemmeno in prigione, per cui si sono ritrovate qui, quasi a scontare una pena aggiuntiva nonostante abbiano regolato i conti con la giustizia; e, ironia della sorte, proprio la loro fedina penale sarà l’ostacolo più grande fra loro e il permesso di soggiorno.

C’è chi prima di finire nel Cie viveva in Italia già da anni, e chi invece non ha avuto il tempo di capire dove fosse. Chi ha girato più di un Centro, e sa perfettamente che quando gli daranno il nuovo foglio di via non se ne andrà, perché dal suo paese è scappato, e di certo non intende tornarci.

Islam è bengalese e sventola il nuovo documento di proroga: gli hanno appena detto che dovrà stare a Ponte Galeria altri trenta giorni. La sua preoccupazione più grande è la famiglia rimasta in Bangladesh. Fino ad un mese fa li manteneva, con i soldi guadagnati in Italia, e ora non sa come fare, soprattutto per il padre, malato, al quale non ha avuto il coraggio di dire dove si trova adesso.

Secondo quanto si legge nell’ultimo Rapporto dell’associazione Medici per i Diritti Umani sulla situazione di Ponte Galeria, le nazionalità più presenti all’interno lo scorso anno sono state nell’ordine: Tunisia, Nigeria, Romania, Marocco e Algeria. Non mancano però cittadini di altri paesi, come il Senegal, la Bosnia, l’Albania, la Russia, la Repubblica Domenicana.

Santa viene proprio da Santo Domingo: è arrivata in Italia dopo aver perso il lavoro, a causa della crisi economica. Ha lavorato come collaboratrice domestica ma nessuno l’ha messa in regola, e così si è ritrovata senza un permesso di soggiorno. Ora è nel Cie, e racconta che la sua unica speranza è di riuscire a sposare il fidanzato italiano, per avere la cittadinanza e poter restare a Roma legalmente. Il problema è che il nulla osta che aspetta dal suo paese potrebbe tardare più del provvedimento di espulsione.

Se lo scopo della permanenza in un Centro di Identificazione ed Espulsione è proprio quello di stabilire con certezza l’identità della persona, gli stessi operatori della Cooperativa Auxilum che attualmente ha in gestione Ponte Galeria ammettono che spesso questo non è possibile: prima di tutto perché ci sono paesi e rappresentanze consolari che non collaborano con le autorità italiane, e poi perché spesso chi arriva nel Cie è già passato da un carcere italiano, ma nemmeno mentre scontava la sua pena è stato identificato. Così per il migrante il “soggiorno” nel Cie diventa una condanna aggiuntiva, e la fedina penale un fattore che ostacola l’ottenimento di un permesso regolare.

Ponte Galeria opera dal 1998, quando la legge 40, la Turco-Napolitano, istituisce in quell’anno i Centri di Permanenza Temporanea ed Assistenza, i CPTA, che poi diventeranno Cie soltanto nel 2008, con il Decreto legge n. 92 del 23 maggio. Da allora il periodo massimo di permanenza all’interno è cresciuto da sessanta giorni agli attuali 18 mesi, un periodo troppo lungo che di fatto trasforma il trattenimento in detenzione, seppure amministrativa. Nel 2011 sono transitate dal centro poco più di duemila persone, ma solo 802 sono state effettivamente rimpatriate, secondo i dati della Prefettura raccolti dai Medici per i Diritti Umani, appena il 39% del totale.

L’ente gestore, Auxilium dal 2010 e prima Croce Rossa Italiana, ha il compito di garantire i pasti, le cure mediche, la pulizia e il decoro della struttura, ma fatti salvi i diritti minimi di sussistenza della persona, la verità è che il un posto come questo le giornate trascorrono nell’inerzia, oltre che sotto il sole cocente in estate, e fra le quattro mura delle stanze dormitorio in inverno.

In un posto dove gli atti di autolesionismo e disperazione si sono verificati spesso, qualsiasi oggetto, anche d’uso comune, diventa un potenziale pericolo, e ci si ritrova con i piedi dei letti avvitati al pavimento con dei bulloni, lenzuola di carta, bottiglie di plastica senza tappi in cui tenere l’acqua da bere ma anche lo shampoo, o il bagno schiuma, e nessuna possibilità di possedere uno specchio, o una spazzola per i capelli, libri o giornali, né scarpe con i lacci.

“Non si può fare nulla qui – racconta Fatiha, marocchina d’origine, messinese d’adozione – è peggio di un carcere, e io che ci sono stata posso fare il confronto”.

Condivide lo spazio con altre quattro ragazze, ma è l’unica fra loro che parla perfettamente l’italiano e finisce per fare da interprete: “facevo le pulizie per guadagnarmi da vivere – dice – ma in un momento di difficoltà sono stata costretta a rubare e mi hanno arrestata. È la terza volta che finisco in un Cie perché dopo il carcere ottenere un permesso di soggiorno è diventato impossibile”. Nella stanza–dormitorio è l’unica che è riuscita a tappare le sue bottiglie di plastica: “i tappi sono proibiti? Si – scherza- ma io sono pur sempre una ladra…”.

Immagine: cc Sciopero dei migranti, Bologna 2010