Il destino di un’immigrata a viale Marconi
Nina zu Fürstenberg 2 febbraio 2011

È un atto di fede credere nel maktub, nel destino, scrive Amara Lakhous nel suo ultimo libro «Divorzio all’islamica a viale Marconi» (192 pp, euro 16, E/O). Però l’importante è assumersi le proprie responsabilità. Come il concetto del fair play nello sport: dare il massimo e accettare il risultato finale… Con questo principio nel cuore, Safia lascia il Cairo per diventare la Sofia di Roma, la «Mecca della moda», come chiama lei l’Italia. Sì, lei ha preso il suo destino in mano, prima di aver «letto il libro della femminista Nawal Saadawi» e dopo che sua nonna le aveva insegnato che a quelle donne che volano alto «ci penserà la famiglia a spezzare le ali».

Lakhous indaga il ruolo della donna e delle sue libertà nella cultura araba e nel Corano. Una donna con dei sogni, sogni che vuole realizzare. Ma nonostante tutto l’impegno Sofia, la protagonista, non si realizza mai veramente. Diventa un po’ parrucchiera, ma non del tutto, e non diventa una donna né libera né veramente amata. Però non si arrende, lotta, è coraggiosa. E così diventa il personaggio meno grigio e meno disperato del libro. Quando il marito le chiede di portare il velo, lei tace e continua lottare. Poi incontra un altro uomo, e per un attimo le sembra di aver cambiato il maktub.

Se, come Amara Lakhous, si è autori di un libro di successo, «Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio», da cui è stato tratto anche un film, tutti in realtà si aspettano che l’opera successiva non sarà all’altezza di quella precedente. Soprattutto se porta un titolo simile, come «Divorzio all’islamica a viale Marconi», ed è ambientata a due passi dall’altra. Invece Lakhous, nato in Algeria e romano di adozione, ha ancora una volta smentito questo luogo comune e prodotto un altro ottimo libro, che mi sento di consigliare a chiunque. È scritto in un italiano chiaro, semplice e alla portata di tutti, il che lo rende accessibile anche a quei lettori dei quali il libro tratta.

L’umorismo sottile e spietatamente nero di Lakhous attraversa anche questa storia. Le figure che la compongono, tratteggiate a tinte forti, sono tutte allo stesso tempo eroi e vittime. Personaggi intrecciati tra di loro in questo turbinio che è la loro vita, coraggiosa, piena di affanni, al contempo criptica, sospetta e sospettata… e paralizzata. Nella nostra era della nuova paura del nemico invisibile e del terrorismo visibile, in cui si fa l’equazione «Islam uguale violenza», è sufficiente guardare Al Jazeera a «little Cairo», cioè a viale Marconi, per risultare sospetti. E tutti guardano Al Jazeera.

Il capitano del Sismi e due suoi colleghi dei servizi statunitensi ed egiziani, detti «Starsky e Hutch», sono infatti convinti di riuscire a fare proprio a Roma, a «little Cairo», la loro grande retata. L’italiano infiltrato, Christian alias Issa, coprotagonista del libro, rappresenta l’occhio italiano, e introduce il lettore in questo mondo, ma è anche quello che deve infiltrarsi, svelare il complotto. A un certo punto, nel mezzo della ridda, incontra Safia, detta anche Sofia, e in quel momento cadono gli steccati tra noi e loro. Anche se poi alla fine rimangono tutti intrappolati nel loro maktub. Gli immigrati però si sono ricreati a “little Cairo” il loro mondo nuovo, con i suoi abitanti, a cui ci si affeziona, come succede a Issa alias Christian, che a un certo punto non riesce più a separare il voi dal noi e perciò trascura sempre più il suo incarico di spia.

E poi ci sono gli altri romani della storia: Giovanni, ad esempio, il pensionato. Quando è di cattivo umore legge l’Unità, che disprezza, per inveire contro i partigiani e gli stranieri, mentre si fa accudire, si capisce, dalla sua badante esteuropea che lo porta a spasso nel parco. Quando è di buon umore invece si rispecchia soddisfatto nella lettura di Libero, la sua testata preferita, perché lì sono d’accordo con lui che gli immigrati se ne devono tornare a casa. Il corrotto capitano italiano sfrutta la sua influenza sui permessi di soggiorno e assapora il suo potere. Non è veramente cattivo, ma meschino e pusillanime. Quindi c’è la moglie italiana del macellaio islamico, zelante convertita, che sembra avere inventato lei l’Islam di tendenza islamistica che si sente in dovere di predicare. Nel complesso il libro illustra attraverso i suoi personaggi i vari modi in cui si può vivere l’Islam.

A questo scrittore di fede islamica è riuscito di far emergere in maniera leggera, en passant, i diversi elementi che compongono la cultura arabo-musulmana e i diversi modi in cui questi, e anche il Corano, si possono intendere: otteniamo informazioni sul divorzio nell’Islam e sulla circoncisione, le donne, il velo, la poligamia, le spose, le zitelle e le divorziate, la libertà e soprattutto sul fatto che, nell’Islam, Dio viene al di sopra di tutto, e che perciò è «un atto di fede credere nel maktub, nel destino, ma l’importante è assumersi le proprie responsabilità».

Non è proprio il principio della libertà, così come lo intendiamo tutti. Ma Lakhous chiarisce il punto citando la frase del poeta Abu al-Qasim al-Shabbi: «Quando il popolo decide di vivere, il destino non può che piegarsi». Succedeva, scrive, in una classe, e mentre dei compagni (probabilmente fondamentalisti in erba) «sostenevano che il poeta fosse un miscredente e che quindi dovesse scordarsi il paradiso, le uri, i fiumi di vino e tutto quanto, e che la volontà del popolo non può in alcun caso oltrepassare quella divina, il professore replicò spiegando che Dio è onnipotente e di conseguenza può cambiare anche il destino. E’ una possibilità da mettere in conto, però sta a noi superare le prove e dimostrare di essere all’altezza».