Valacchi, socki, gorani: le mille etnie dei Balcani
Matteo Tacconi 16 febbraio 2010

Da settentrione a meridione, a voi i magnifici sette: sloveni, croati, bosniaci, serbi, montenegrini, albanesi e macedoni. Così tanti popoli ammassati in un’unica area geografica, che la sia chiami ex Jugoslavia oppure oltre Adriatico, più semplicemente Balcani o più artificiosamente Balcani occidentali, come la si definisce in diplomatichese, pochi non sono. Anzi, quasi che sono troppi, come si sottolinea spesso per “smascherare” la contraddizione che s’annida nel rapporto tra uno spazio così piccolo e una serie di stati-nazione, sorti dopo la liquidazione della Jugoslavia, così ampia. Sono sette in tutto, gli stati. Otto quelli della regione, considerato che l’Albania è sempre lì, sulla costa adriatica. Da prima della Jugoslavia e dopo la Jugoslavia.

Riassumendo: sette popoli e otto stati. Due dei quali albanesi, Albania e Kosovo. A tutto questo si aggiunga che alcuni di questi ceppi etnici sono “spalmati” al di fuori dei confini delle rispettive e naturali madrepatrie. I serbi vivono anche in Croazia, Bosnia, Kosovo e Montenegro. I croati, in Serbia e Bosnia. Gli albanesi sono presenti non solo a Tirana e Pristina, ma anche in Serbia, Montenegro e Macedonia. Persino in Grecia. I bosniaci, chissà. È che i bosniaci non sono chiaramente “identificabili”. Sono i cittadini della Bosnia, a prescindere dalle loro radici croate, serbe o musulmane? Sono i soli bosgnacchi, cioè i musulmani di Bosnia? Il quadro è complesso. Il groviglio pazzesco. Ma il panorama etnico non è completo. Ai sette gruppi principali se ne devono aggiungere altri e altri ancora. Microcosmi pulviscolari, radicati nei vari angoli della penisola, spesso sconosciuti. Microcosmi che non hanno una loro patria e ai quali – il punto è questo – viene frequentemente negata la dignità di minoranza, essendo le loro caratteristiche etniche, storiche, culturali e religiose, “aliene” rispetto a quelle che definiscono e strutturano sembianze, forme e contorni degli otto stati nazionali.

L’elenco di questi piccoli universi che lottano allo scopo di ottenere una loro specifica dignità, nel contesto dei paesi in cui vivono – nessuno di questi microcosmi, va detto, persegue fini scissionisti o vuole una propria patria, con tanto di confini e istituzioni – è lungo, lunghissimo. Iniziamo con il gruppo più presente: i rom. Sono ovunque e sono tanti. Stime precise non ne esistono, ma si parla di oltre 500mila persone, tra nuclei che da sempre vivono in certi posti, nuclei nomadi e nuclei costretti a spostarsi dopo le guerre, in altri stati o in altre città dei Balcani. Nella Serbia, la presenza più visibile. A Belgrado sono censiti – udite, udite – 125 slum rom. Ma anche le periferie di Podgorica e Tirana, le capitali montenegrina e albanese, registrano sobborghi monoetnici abitati dai membri di questo gruppo. Spesso costretti a vivere in aree degradate, senza servizi, inquinate. È il caso dei rom di Mitrovica, la città divisa del Kosovo, una piccola Berlino nel versante nord dell’ultimo degli stati sorti dal processo di disgregazione dell’ex Jugoslavia. Lì i rom risiedono a ridosso di un ex complesso industriale, celebre ai tempi di Tito per la produzione mineraria e altrettanto celebre, oggi che non sforna più nulla, per il fatto che rende Mitrovica, complice la presenza nel sottosuolo di terribili porcherie, la città più inquinata dei Balcani. Forse d’Europa.

Dai rom agli jugoslavi. Malgrado la patria del socialismo autogestito non esista più, si conserva uno zoccolo duro di persone che vi si riconosce ancora o, piuttosto, non si riconosce in nessuno degli stati etnici sorti dopo le guerre degli anni ’90. La tendenza è abbastanza accentuata a Sarajevo. Nella capitale bosniaca, stando al censimento del 1991, l’ultimo effettuato, il 13 per cento dei 361mila abitanti si dichiarava jugoslavo. Sebbene si sostenga che se si censisse di nuovo la popolazione tale percentuale sarebbe decisamente inferiore, molti sarajevesi continuano a sentirsi jugoslavi e “titini”. Tant’è che quando le autorità municipali decisero qualche anno fa di rinominare la Marsala Tita (l’arteria cittadina che porta il nome del maresciallo Josip Broz), intitolandola al “padre della patria” bosgnacca (aggettivo che definisce la Bosnia musulmana) Alija Izetbegovic, ci fu una mezza sollevazione e non se ne fece nulla. Anche nella Vojvodina, la regione autonoma nel nord della Serbia, la fazione jugoslava è abbastanza presente: al censimento del 2002 il tre per cento della popolazione si dichiarava appartenente a tale gruppo. Sempre in Serbia, c’è da segnalare il fatto che l’ex speaker del Parlamento, Oliver Dulic, si definisce orgogliosamente jugoslavo.

La Vojvodina, per restare in tema, è senz’altro lo spicchio di Balcani più etnicamente ricco. Dipende in larga misura dal portato della storia, dal fatto che la Vojvodina è sempre stata terra di frontiera e nei secoli ha risentito dell’influenza centro-europea, austriaca, ungherese, tedesca, russa. Il mosaico nazionale è ancora oggi impressionante. Ci sono ovviamente i rom e gli jugoslavi, ma pure i polacchi, gli ucraini, i romeni, i tedeschi, gli ungheresi (il gruppo principale, costituisce il 15 per cento dell’intera popolazione), i cechi e i russi. Ma di gruppi, oltre a questi, come dire, noti al pubblico, ne esistono anche altri, del tutto o quasi del tutto misconosciuti. È il caso dei valacchi, microcosmo con origini dacie-romane che parla una lingua imparentata con il romeno e che ha conservato, ancora oggi e ancora in parte, rituali religiosi di natura pagana e magica. Ai valacchi, radicati in modo particolare nella Serbia nord-orientale, è stato riconosciuto lo status di minoranza solo un paio d’anni fa.

Figurano, nella lista, anche i socki e i bunjevi, antiche popolazione di ceppo “dinarico”, di lingua prossima al croato e di rito cattolico, che tendono però a differenziarsi sia dagli sloveni che dai croati. Un altro microcosmo è quello dei rusyns, di civilizzazione slovacca. Infine, egiziani e ashkali. In Vojvodina sono appena una manciata. Più radicati in Kosovo, dove sono stati a lungo considerati appartenenti all’etnia rom. Ma ci sono delle differenze, culturali e storiche, con i rom. I primi si considerano eredi degli egiziani emigrati nei Balcani nei tempi antichi. I secondi vedono negli emigranti palestinesi i loro antenati e hanno anche una loro formazione politica, il Partito democratico degli ashkali. Entrambi, sia gli egiziani che gli ashkali, parlano l’albanese. Restando in Kosovo, si deve citare anche la minoranza dei gorani, popolo slavo ma di culto islamico originario delle alture del sud del paese, con una diaspora significativa. Molti dei gorani, considerato come la povertà delle loro regioni storiche li abbia costretti a trasmigrare, vivono oggi in Serbia, Bulgaria, Croazia e in altri paesi e città dei Balcani. Ma cercano, strenuamente, di conservare una loro specificità dentro gli stati-nazione dell’ex Jugoslavia. L’impresa è difficile. Il nazionalismo e il monolitismo sono idee fondanti delle patrie balcaniche odierne. Ma c’è chi ha iniziato a capire, anche se solo da poco, che la ricchezza culturale è anche una ricchezza politica.