I musulmani cinesi da Mao al dopo 11/9
Sara Colantonio 17 marzo 2009

La situazione presentata da Elena Caprioni, cultore della materia in Storia della Cina Moderna e Contemporanea, all’interno del seminario “Luci ed ombre sulle minoranze musulmane in Cina” proposto dal centro culturale VersOriente di Roma, mostra come le minoranze musulmane siano per il 65% concentrate a nord-ovest del Paese, nello Xinjiang, regione che confina con la Mongolia e con cinque paesi musulmani: Afghanistan, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan e Tagikistan. Le etnie più numerose sono quella degli Uygur – turcofoni – e quella degli Hui. I primi, al contrario degli Hui, evitando contatti con gli Han – l’etnia maggioritaria della Cina – hanno conservato i tratti somatici originari e continuano a rifiutare ogni assimilazione con la lingua e la cultura cinese, mantenendo un diverso abbigliamento e una stretta – per quanto possibile – osservanza religiosa.

Fin dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese, il Partito Comunista ha cercato di eliminare l’Islam, temendo una sua ingerenza nella vita politica, economica e sociale nel Paese. Dopo un inizio apparentemente compiacente – nel 1953 viene fondata l’Associazione Islamica di Cina e nel 1954 la costituzione garantisce la libertà di culto – la situazione andrà peggiorando sempre di più. Nel ’66 Mao Zedong dichiarò l’Islam un “rimasuglio feudale nocivo”, confiscò le grandi proprietà terriere dei musulmani ed incitò le Guardie Rosse ad occupare o demolire le moschee, bruciare le copie del Corano e rinchiudere gli Imam nei campi di lavoro. Negli anni ’80 Deng Xiaoping si accorse però che questa politica di repressione contro i musulmani poteva fargli perdere la regione dello Xinjiang e riattivò l’Associazione Islamica di Cina destituita da Mao, riabilitando anche l’alfabeto arabo per la lingua uigura e permettendo il pellegrinaggio alla Mecca e la costruzione di nuove moschee.

Queste concessioni però furono soltanto apparenti, poiché in realtà sotto l’era di Deng Xiaoping era possibile credere nella religione islamica, ma non era possibile praticarla: veniva dichiarato illegale infatti l’uso di “superstizioni feudali” come non bere alcol o non mangiare carne di maiale, nonché venivano considerati punibili gli “stregoni che utilizzano le superstizioni feudali per ottenere proprietà terriere”, ovvero gli Imam. Nel 1982 il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese pubblicò il “documento 9” nel quale si stabiliva che i membri del PC – la tessera del partito era ed è necessaria per poter lavorare – potevano credere nell’Islam e partecipare a funerali e matrimoni, ma non potevano pregare cinque volte al giorno o digiunare nel mese di Ramadan. Per controllare che ciò fosse rispettato gli stessi dirigenti invitavano i propri operai a pranzo. Ciò provocò dei disordini soprattutto negli anni 90: gli Uiguri occupavano municipi – come avvenne nel ’90 a Baren ad esempio – o promuovevano sommosse, che venivano però facilmente e violentemente sedate dalla polizia cinese.

L’11 settembre 2001 inasprì ulteriormente i rapporti: il 21 giugno 2002 venne pubblicato un documento dal titolo “Terroristi del Turkestan orientale allo scoperto” dove gli Uiguri venivano etichettati come terroristi perché avevano partecipato agli addestramenti dei talebani. La Cina si dichiarava così una vittima del terrorismo internazionale, coadiuvata anche dalla decisione di Bush di inserire questi gruppi nella “lista nera” delle organizzazioni terroristiche. Ma com’è la situazione di questi ultimi anni? Nonostante la Cina non ritenga in realtà queste minoranze pericolose per l’unità del Paese perché troppo diverse linguisticamente per coalizzarsi, mantiene la sua politica di repressione: attraverso il generico termine “normale”, che è contenuto nell’articolo 36 della sua Costituzione (“Lo stato protegge le attività religiose normali. Nessuno deve usare la religione per danneggiare l’ordine sociale, nuocere alla salute dei cittadini, ostacolare l’ordinamento educativo dello stato”) e che può essere interpretato a piacimento, il regime continua a negare i diritti legati alla libertà religiosa.