Bianco e Nero, quando il desiderio vince il pregiudizio
Elisabetta Ambrosi 23 gennaio 2008

È possibile raccontare in un film come nascono e si formano gli stereotipi culturali? E come anche in una società così ibrida e contaminata come la nostra resistano pregiudizi razziali consistenti? Ci è riuscita con leggerezza e ironia Cristina Comencini nel film Bianco e Nero, in questi giorni nelle sale italiane. Un titolo semplice eppure efficace, che rimanda non solo al diverso colore della nostra pigmentazione, ma anche al modo di vedere il mondo (spesso dicotomico, per «blocchi» a causa proprio delle nostre «ostruzioni» emotive) da parte di chi lo abita. La storia è, apparentemente, assai scarna. Due famiglie, una bianca e una nera. Un incontro casuale, dal quale nasce una relazione amorosa e passionale tra due membri delle due diverse famiglie. E poi la storia di tutte le resistenze, psicologiche e insieme culturali, dei rispettivi partner, figli e parenti (ma anche dei protagonisti stessi della relazione) per impedire la dolorosa e lacerante strada della separazione.

La regista italiana, che più di tutte monitora i mutamenti che avvengono tra le quattro mura, utilizza ancora una volta i temi a lei cari – il mondo della famiglia e degli affetti ¬– per portare sullo schermo, insieme alle vicissitudini di una coppia, anche quelle dei clichè culturali, spesso sottili e indiretti, che si esprimono nel linguaggio e nei gesti di grandi e bambini. La storia dei due genitori innamorati, infatti, diventa al tempo stesso il racconto delle trasformazioni che subisce il pregiudizio stesso, fino alla conclusione, sotto il segno della possibilità del cambiamento, di vita e di mentalità. Protagonista del film (ma si sa, ama spesso essere al centro della scena) è il desiderio, con i suoi vari ingredienti – eros, immaginazione, parola. Questa spinta interna, che induce all’azione chi ne è stato (più o meno) felicemente colpito, mette conseguentemente in moto tutti coloro che circondano i due innamorati, innescando una serie di reazioni a catena contro le quali si sviluppano le contromosse dei partner abbandonati e delle loro famiglie. Difese e tentativi di azione deboli e inarticolati, proprio come flebili e confusi sono le loro affermazioni e giudizi su chi è diverso da loro per valori e colore della pelle.

È allora proprio il desiderio, vigoroso come solo lui sa essere, a giocare, come spesso fa, il ruolo di chi scompagina i cassetti, confondendone i contenuti, portando mondi diversi a contaminarsi, separando chi prima era unito e unendo chi non avrebbe mai pensato di aver qualcosa in comune. E forse questo è il principale dei tanti motivi originali di riflessione che la storia di Bianco e Nero suscita: visto che gli stereotipi nascono non solo da insegnamenti sbagliati, ma da un’educazione affettiva distorta, rigida e impaurita, non sarà tanto la didattica lo strumento migliore che aiuta giovani e adulti a vincere i loro pregiudizi, quanto un miglioramento della qualità della loro vita emotiva, che li porti ad essere ricettivi e permeabili al mondo esterno. Incremento che, ahimé, è ben più complicato da ottenere e proteggere, perché presuppone un’azione estremamente vasta, complessa e che soprattutto dovrebbe svolgersi su tanti fronti diversi, certo non solo su quello scolastico.

Sul rude canovaccio psicologico desiderio-cambiamento si innestano poi una serie di altri approfondimenti che articolano ulteriormente la riflessione sul tema dell’accettazione delle differenze culturali, vero leitmotiv del film. La Comencini decide di andare ad esplorare proprio il luogo dove si formano gli immaginari di ciascuno, ovvero gli anni dell’infanzia. L’occhio della regista si sofferma in particolare sugli strumenti attraverso i quali i bambini si formano, nel gioco complesso di proiezioni, la propria identità: i giocattoli, e in particolare le bambole, e le favole. Se c’è un simbolo del film, infatti, è proprio la bellissima Barbie bionda sposa, oggetto del desiderio delle bambine di ogni tempo, immagine di plastica e rayon della donna perfetta.

La bambina bianca ne possiede una (regalata, non a caso, dalla nonna, esponente di una visione femminile povera), la piccola bambina nera cerca di rubargliela, ansiosa anche lei di far suo quell’immaginario; la madre la punisce severamente del furto (preoccupata non dell’atto in sé, ma del fatto che possa diventare il riferimento ideale della figlia): ma alla fine, proprio quando gli stereotipi e le rigidità che accomunano, in forma rovesciata, sia i bianchi che i neri, in parte si mitigano, finirà per regalargliela, proprio come comincerà a raccontarle favole dove le protagoniste sono principesse bianche dal piede minuto. E non unicamente a simbolo che la reciproca contaminazione è avvenuta, per cui si può, a quel punto, anche giocare a scambiarsi i reciproci modelli e immaginari. Ma anche a dimostrazione del fatto che solo quando le rigide difese e divisioni del mondo interno sono state ammorbidite, fino a permettere all’altro di penetrarvi (pure con tutti gli angosciosi scossoni che ne seguono), è possibile alleggerire il peso simbolico di quei modelli incarnati in giocattoli e racconti: che allora ritornano ad essere oggetti ludici innocui, proprio perché accompagnati da una flessibilità emotiva, che è e resta la vera chiave della tolleranza.

Il film, tuttavia, non si sottrae nel raccontare anche i costi, oltre ai vantaggi, che questa duttilità interiore comporta. Lo fa soprattutto attraverso gli occhi del marito e della moglie abbandonati, i quali si trovano improvvisamente a fare i conti con un mondo cambiato non solo perché il loro oggetto d’amore non c’è più, ma perché la realtà che si trovano di fronte è ben più complessa di quella iniziale (ed è significativo che si tratti di generazioni giovani: il film mostra, senza giudizi morali, come di fronte a eventi simili, i loro genitori avevano reagito in maniera diversa). Bianco e Nero è, dunque, un utile strumento interculturale. Se c’è tuttavia un limite nello sguardo attento alla complessità come quello della Comencini (ma va detto di questa sindrome soffre una buona fetta del cinema italiano) è, forse, l’incapacità di intercettare quella che è divenuta oggi una forma di diversità ben più difficile da accettare che la disomogeneità di valori e religioni. E cioè, semplicemente, lo iato che separa ricchi e poveri, un baratro in progressivo e silenzioso aumento, nonostante la pur benevola indifferenza di chi ha gli strumenti per renderlo visibile.

Non si trattava necessariamente di mettere in scena neri poveri (perché anche questo è un clichè che la regista vuole superare: che le nere siano sempre povere e prostitute, appunto). Eppure si ha l’impressione che tra i due che si innamorano, l’uno bianco residente nel quartiere Monti a Roma, l’altra nera sempre – anche quando è affranta e abbandonata – vestita Armani, ci siano più affinità che tra un ricco borghese bianco e italiano e una ragazza, sempre bianca e italiana, che abita nei quartiere popolari di una grande città.
Che la povertà sia l’unico tabù – quello che ci terrorizza veramente – che non riusciamo ad infrangere?