Ex mujahideen, scoppia in Bosnia la guerra dei passaporti
Matteo Tacconi 25 settembre 2007

Sono arrivati in Bosnia dall’Arabia Saudita e dal Marocco, dall’Algeria e dalla Siria. Pure dall’Iraq. Hanno servito l’Armija, l’esercito dei musulmani di Bosnia, durante il conflitto del 1992-1995. Si sono gettati a capofitto nella mischia, con due obiettivi. Il primo, di stampo politico: difendere i confratelli bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) dagli assalti dell’esercito federale jugoslavo, dei paramilitari serbo-bosniaci di Ratko Mladic e dai battaglioni croati dell’Hvo, allora impegnati a cannoneggiare Mostar. Il secondo, di matrice ideologica: prendere parte a quella che a posteriori può essere definita come la “prova generale”della guerra santa. Musulmani contro cristiani: questo fu lo schema della guerra di Bosnia. La definizione è comunque riduttiva, dal momento che più fattori, non solamente religiosi, s’intrecciarono durante il terribile triennio bosniaco, una carneficina che costò la vita a circa centomila persone. Tuttavia, nell’ottica dei combattenti giunti a Sarajevo in quel periodo, era la guerra santa contro l’ “infedele” cristiano il motivo, decisamente manicheo, che dettò la scelta di aggregarsi all’Armija, indossare la divisa e imbracciare il fucile.

I mujahideen vinsero, insieme ai commilitoni bosgnacchi, quella guerra. Fu comunque una vittoria mutilata, dal momento che Alija Izetbegovic, l’allora presidente bosniaco, fu costretto a lasciare da parte il sogno lungamente accarezzato di fare della Bosnia uno stato musulmano, accettando il compromesso di Dayton e la condivisione del potere con serbi e croati, che insieme ai bosgnacchi sono – e qui si cita il dettato costituzionale – i “tre popoli costituenti della Bosnia”. Dopo la fine della guerra, una folta pattuglia di guerriglieri islamici rimase nel paese balcanico. A favorire la permanenza dei mujahideen fu la generosa concessione di passaporti bosniaci da parte del governo di Izetbegovic. Fu, quella, una maniera per premiare coloro che onorarono la divisa dell’Armija, combattendo contro i serbi e – sul cosiddetto “secondo fronte”– contro i croati, che dopo essersi alleati nell’Erzegovina con i bosgnacchi, una volta respinti i battaglioni serbi, aggredirono l’Armija, con l’obiettivo, fortemente sostenuto da Zagabria, di costituire uno stato croato (l’Herceg-Bosna) all’interno della Bosnia.

Alcuni mujahideen rimasero così a Sarajevo e nelle altre città bosniache. Alcuni di loro si sono sposati, hanno messo su famiglia e trovato un mestiere. Hanno, nella sostanza, eletto la Bosnia a loro nuova patria. Altri hanno invece iniziato a propagandare l’Islam radicale, tallone d’Achille di una Bosnia che lentamente, passo dopo passo, sta risorgendo economicamente e culturalmente, cercando di dimenticare una guerra indimenticabile. Succede ora che il governo bosniaco abbia però optato per espellere i vecchi veterani stranieri. Incalzata da Washington e Bruxelles, preoccupate dalla presenza di una rete radicale nella Bosnia, Sarajevo ha deciso di dare il proprio contributo alla causa della lotta al terrorismo, facendo quello che finora, per mancanza di coraggio o questioni politiche, non aveva mai fatto: rimpatriare i mujahideen e sgominare così la cosiddetta “dorsale verde”della Bosnia.

Di quest’ultima si discute da tempo. Indubbiamente, dopo la guerra, lo slancio ideologico dei mujahideen s’è propagato, complice le persistenti pulsioni etniche e – tema spesso sottaciuto – i corposi finanziamenti offerti dall’Arabia Saudita e da altri paesi arabi ai politici bosgnacchi, in cambio di un lasciapassare per la penetrazione del verbo radicale. A percorrere le strade di Bosnia, è difficile non imbattersi in moschee e madrasse, nuove di zecca, che espongono sulle facciate tabelle di marmo che ricordano come gli edifici siano stati costruiti con il generoso contributo delle charities saudite, spesso interessate all’azione politica, più che a quella umanitaria. Inoltre, diversi villaggi e cittadine della Bosnia, specie delle regioni centrali (Zenica è l’esempio più eclatante, Bocinja e Gornja Maoca altri “buoni” esempi) sono diventati nel corso degli anni delle piccole colonie del wahabbismo, la corrente dottrinaria che va per la maggiore in Bosnia.

Comunque: la presenza di un segmento radicale, all’interno della comunità islamica bosniaca (fondamentalmente laica, tuttavia) ha procurato a Sarajevo alcuni problemi. L’Occidente, specie dopo l’11 settembre, ha cominciato a guardare la Bosnia in modo sospettoso, a lanciare stoccate contro i bosgnacchi, che all’epoca della guerra ricompensarono i mujahideen con i passaporti, senza tenere conto delle inclinazioni politiche dei nuovi cittadini. Alcuni fatti di cronaca hanno contribuito a rafforzare l’idea che la Bosnia sia un buon rifugio per i radicali islamici. Nell’ottobre del 2001, sei algerini furono arrestati dalla polizia bosniaca e spediti a Guantanamo. L’anno scorso, uno svedese di origine bosniaca e un turco naturalizzato danese sono stati fermati in Bosnia, perché accusati di possedere esplosivo e pianificare attentati. Il processo a loro carico si è aperto a Sarajevo, qualche settimana fa. Ha inoltre destato sospetto il fatto che alcuni miliziani, arrestati in diversi angoli di mondo, possedessero passaporti bosniaci. Infine, a soffiare ulteriormente sul fuoco sono stati i politici serbo-bosniaci, che da anni rimproverano alla controparte bosgnacca di volere creare un “califfato”nel cuore dell’Europa. Sebbene a Banja Luka (la capitale dei serbi di Bosnia) pecchino spesso di populismo, la propaganda antimusulmana, complice la presenza di piccole succursali jihadiste in Bosnia, ha attecchito e non poco.

Recentemente, il governo ha deciso di revocare la cittadinanza bosniaca a circa mille mujahideen. Lo scopo del provvedimento è quello duplice: si tratta di non lacerare ulteriormente la già difficile convivenza tra bosgnacchi, serbi e croati e di rassicurare Bruxelles e Washington sulla volontà di contrastare con tutti gli strumenti il radicalismo islamico. Insomma, i bosgnacchi non vogliono che la Bosnia diventi uno stato canaglia. A rimetterci, così, sono i vecchi combattenti, venuti in Bosnia dal Medio Oriente per dare man forte all’Armija. L’esecutivo ha al momento decretato l’espulsione di 420 ex guerriglieri, secondo quanto riferisce il New York Times in una dettagliata inchiesta dedicata all’argomento e firmata dal corrispondente Nicholas Wood. “La presenza di ex combattenti stranieri non è particolarmente positiva per un paese che cerca di trasformarsi in uno stato moderno”, ha spiegato al foglio newyorkese una fonte diplomatica, rimasta anonima. Anche l’Alto rappresentante per la Bosnia (Ohr), lo slovacco Miroslav Lajcak, sta esercitando una costante pressione sul governo, affinché espella i mujahideen più radicali. Lajcak, che rispetto al predecessore si sta caratterizzando per una maggiore incisività d’azione, ha denunciato come negli anni passati Sarajevo, sulla questione, non si sia data un granché da fare. Nel 2006, per esempio, sono stati rimpatriati solamente due ex guerriglieri.

Nel frattempo si stanno mobilitando sia i mujahideen che gli attivisti dei diritti umani, che contestano i modi piuttosto bruschi del governo. I primi denunciano che dopo più di dieci anni trascorsi in Bosnia, il rimpatrio è un grave abuso verso il loro servizio prestato nell’Armija e verso le loro famiglie. Le organizzazioni impegnate nel campo dei diritti umani dicono invece che il governo sta varando un’azione illegale, dal momento che la revoca della cittadinanza viene perlopiù fatta scattare per vizi procedurali, a livello burocratico, compiuti oltre dieci anni fa. Un’altra preoccupazione, sollevata dagli attivisti, riguarda l’eventuale “trattamento degradante”riservato ai combattenti una volta rimpatriati nei loro paesi d’origine. Il riferimento è a possibili provvedimenti detentivi presi dai governi arabi nei confronti dei mujahideen, le cui espulsioni certificano automaticamente la loro “pericolosità sociale”. Su questo punto, il viceministro bosniaco per la sicurezza, Dragan Mektic, è stato più che eloquente. “Se un paese ci assicura che non ci saranno trattamenti degradanti, per noi è un motivo sufficiente per procedere all’espulsione”, ha tagliato corto Mektic.