Il superamento di tale tensione inter-religiosa sta – secondo gli autori – nella ri-lettura della parola di Dio attraverso un’attenta distinzione tra il significato ultimo dei precetti e la loro forma contestuale, dettata quindi da storie di conflitti e guerre da anni concluse. “Come possiamo noi ebrei dialogare con i musulmani se essi conservano nel Corano versi di minaccia contro gli ebrei?” fu chiesto tempo fa al rabbino David Meyer da alcuni membri della sua congregazione. Puntuale fu la risposta del rabbino: “Anche la Torah contiene versi che farebbero tremare qualsiasi musulmano”. Da questa semplice e breve considerazione nasce il progetto Les Versets douloureux del rabbino David Mayer, professore del Centro Ebraico Internazionale di Bruxelles. Nelle 208 pagine dell’opera edita da Leisson Edizioni, Meyer chiama a raccolta un imam ed un prete per confrontarsi insieme su quei versi sacri, per anni sottaciuti dalla retorica fra istituzioni, e tentare per la prima volta un approccio al dialogo tra le tre grandi fedi monoteiste partendo proprio da quegli inni all’intolleranza ed alla violenza verso i fratelli di altro credo.
Eppure in “Les Versets douloureux" non si legge una critica aperta ai precetti di Dio né v’è traccia del mea culpa da parte dei tre autori per le atrocità commesse dagli ebrei ai tempi di Mosé o per le morti mietute in nome della Guerra Santa dai combattenti jihadisti e neanche per le crociate dei cristiani sotto l’egida papale. Da uomini di fede più che rappresentanti ufficiali della propria istituzione religiosa, il rabbino David Meyer, l’imam Soheib Bencheik ed il prete Yves Simoens mettono sotto accusa i fedeli in quanto uomini e la “pigrizia ed ignoranza intellettuale” degli stessi fedeli sulle scienze teologiche, scagionando così le verità di Fede dalle accuse di intolleranza inter-religiosa. L’incitamento all’odio e all’intolleranza verso i fratelli di diverso culto e la condanna di apostasia necessitano “come ogni testo” – specifica Meyer – di una corretta interpretazione che tenga in dovuta considerazione le coordinate storico-culturali in cui i versi sono stati scritti. Spetta agli uomini di Fede ri-attualizzare i comandi di Dio dettati ai tempi di Mosè e dell’apostolo Giovanni e i precetti del Grande Allah risalenti agli anni dell’espansione dell’Islam.
Meyer scrive che “in un verso del Libro di Giosuè, gli israeliti sono chiamati a scacciare la tribù rivale amalechite e, quindi, a commettere un genocidio in nome di Dio” e aggiunge: “Tali sentimenti di odio e rivalità contenuti nel Libro di Giosuè ha portato a episodi di violenza inaudita; tale comandamento va letto entro il contesto storico della conquista della Terra Promessa ai tempi dei successori di Mosè”. Sulla stessa linea scorre la critica di Sohaib Bencheikh, Gran Mufti di Marsiglia fino al 2005 ed attuale membro-fondatore del Consiglio dei Francesi Musulmani. Nel verso coranico della Spada, i fratelli musulmani vengono chiamati a combattere la Guerra Santa contro gli infedeli: “Il passo – spiega Bencheikh – si riferisce alla tribù dei Beduini, rei di non aver rispettato il patto sulla costituzione di una nazione musulmana”. L’imam continua: “Chi continua a rifugiarsi nelle certezze di verità passate incorre nel fanatismo”. Sulla stregua della denuncia della Guerra Santa, l’imam offre una nuova cornice interpretativa anche alla tanto discussa condanna dell’apostasia da parte dell’Islam. L’“uccidi colui che cambia la sua religione” del Profeta Mohammad va letto – spiega Bencheikh – nel contesto dei primi anni di espansione della fede islamica, in cui il culto equivaleva al diritto di cittadinanza nel nuovo impero.
“Oggi – commenta l’imam – la condanna per apostasia è inacettabile”. Tra i passi citati, l’imam fa cenno anche al verso 158 della Sura IV, in cui il profeta Mohammad condanna la teologia “ortodossa” cristiana. Secondo Bencheikh, tale verso rappresenta una pura speculazione teologica sul mistero della Trinità cristiana”. Yves Simoens, professore di Sacre Scritture a Bruxelles, Parigi e Roma, concentra la sua analisi interpretativa su quel Vangelo del Nuovo Testamento in cui la gran parte dei luminari ed esperti di scienze teologiche intravedono le radici anti-semite del Cristianesimo. Simoens riprende dunque i versi del Vangelo di Giovanni richiamando l’attenzione dei lettori sulla natura teologica della disputa tra cristiani ed ebrei. Secondo l’autore, l’Apostolo Giovanni esprime nel suo Vangelo la commiserazione cristiana verso gli ebrei colpevoli – agli occhi dei cristiani – di non aver riconosciuto il Messia e, dunque, della sua crocefissione. Conclusa nei primi tre capitoli la fase di riflessione individuale, nell’ultimo capitolo di “Les Versets douloureux" si assiste al dialogo tra Meyer, Bencheikh e Simoens. Lo si potrebbe quasi definire il debutto di un nuovo approccio al dialogo inter-religioso, che pone fine alla dialettica dell’auto-giustificazionismo stoico-religioso.