Un’estate a Teheran
Daniele Castellani Perelli 20 novembre 2007

Nel film Marmulak (La lucertola), il regista iraniano Kamal Tabrizi racconta la vicenda di un ladruncolo che, condannato all’ergastolo, tenta il suicidio e finisce in infermeria. Da qui riesce a fuggire sottraendo l’abito a un religioso, ma i tassisti si rifiuteranno di farlo salire, credendolo un mullah, finché un ragazzo non gli darà un passaggio, ma solo per scaricarlo dall’altra parte della città, tutto contento di aver preso in giro un religioso. Successo cinematografico del 2004, il film dimostra come l’Iran sia oggi un paese in cui, nonostante tutto, il regime non abbia tutti i mezzi per mettere a tacere l’innato desiderio di libertà del popolo più giovane e moderno del Medio Oriente; e dimostra anche quanto sia impopolare un regime che si fonda da quasi trent’anni sul potere degli odiati mullah, il privilegiato clero sciita.

Soprattutto perché i ventenni, che non hanno vissuto né la rivoluzione del 1979 né la guerra contro l’Iraq, “vale a dire i due momenti in cui si è formata l’ideologia del regime degli ayatollah”, non vogliono saperne degli ideali della rivoluzione: “Parafrasando Che Guevara, secondo cui la rivoluzione è come la bicicletta perché cade quando sta ferma, gli iraniani hanno smesso di pedalare da un pezzo”. Le citazioni sono contenute nell’ultimo libro della giornalista italo-iraniana Farian Sabahi, Un’estate a Teheran. Opinionista de La Stampa, insegnante di Islam e democrazia all’Università di Torino e autrice già di diversi libri sull’Iran, Sabahi racconta in questo agile volume le storie che ha raccolto in due suoi recenti viaggi nella Repubblica islamica. Un reportage giornalistico molto leggibile, in cui le interviste a personaggi illustri si alternano a racconti curiosi, che vogliono gettare luce sull’altro Iran, quello che rimane soffocato, nei media internazionali, dall’immagine chiusa, retrograda, iperclericale e anche un po’ folle che spesso le donano le iniziative del regime e del presidente Ahmadinejad.

Dando voce al clero dissidente, come gli hojatoleslam Kadivar e Eshkevari e il noto ayatollah Montazeri, Sabahi mostra come i religiosi siano tutt’altro che compatti, e che anche nel loro gruppo si alternino interpretazioni ortodosse e progressiste. L’autrice si immerge tanto nel punto di vista iraniano da arrivare a giustificare le ambizioni nucleari (civili, non militari) della Repubblica: “Il tallone d’Achille dell’economia iraniana è l’importazione dall’estero del 40% della benzina destinata al mercato interno, il nucleare civile è un’esigenza”. Sabahi racconta la magnifica storia degli ebrei iraniani (e non solo) scampati a Hitler grazie all’intervento della diplomazia di Teheran, ma sono forse le storie e i personaggi della vita quotidiana attuale quelli che stupiscono e incuriosiscono di più, proprio perché rivelano più libertà private di quanto si potesse credere.

Scopriamo che uno degli sport preferiti dalle donne è il kickboxing, che il mercato nero dei dvd è fiorente, che i divorzi sono frequenti, che nella famiglia la donna è tutt’altro che una sposa remissiva e repressa. C’è Laleh Seddigh, la Schumacher d’Iran, che partecipa ai rally e tiene a precisare come in Arabia Saudita le donne non possano nemmeno guidare una macchina. C’è Mehdi, che ha deciso di cambiare sesso e in Iran può farlo, grazie a una vecchia fatwa dell’ayatollah Khomeini. A differenza di quello cattolico, il clero sciita è infatti perlopiù concorde nel consentirlo, perché “l’anima, ovvero l’aspetto principale della creazione, non cambia”: “Se ogni cambiamento è peccato, allora non potremmo arare il campo, raccogliere il grano, trasformare la farina in pane – spiega un religioso sciita – Nella nostra vita non facciamo altro che cambiare”.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 103 della rivista Reset (settembre-ottobre 2007)