Se un paese può eleggere due sindaci
Un reportage Ilaria Romano 12 luglio 2011

A tre anni dall’indipendenza proclamata unilateralmente e a dodici dalla fine della guerra civile, il Kosovo è nel pieno della sua evoluzione, e capita che alcuni paesi eleggano due sindaci contemporaneamente.

Questo piccolo stato è un concentrato di arretratezza e sviluppo, vita, morte e ricordo. Basta spostarsi da un villaggio all’altro, o percorrere la strada che collega Pec a Pristina per incontrare carretti carichi di fieno, trainati da cavalli e guidati da bambini, accanto a macchine che sfrecciano veloci e azzardano sorpassi in curva; o ancora piccoli cimiteri fatti da poche lapidi nere, case nuove ma senza intonaco accanto a quelle, identiche, andate distrutte durante il conflitto, con i pochi mattoni rimasti in piedi imbruniti dagli incendi.

Il Kosovo, cinque etnie prevalenti (albanesi, serbi, turchi, gorani e rom) e tre religioni (musulmana, cristiano ortodossa e cristiano cattolica), ha solo due milioni di abitanti ed è fra i paesi più giovani al mondo, non solo come proclamazione della propria autonomia ma anche come età media della sua popolazione: 27 anni. I giovani dunque sono la maggioranza, ma la scolarizzazione stenta ancora, fuori dai centri urbani, a raggiungere i bambini che vivono nelle località di campagna, che spesso d’inverno restano isolate dalla neve.

Qui i ragazzi sono la prima risorsa che potrebbe cambiare il volto di questa terra, ma allo stesso tempo sono anche la fonte delle più grandi incertezze per il futuro, pronti a far esplodere un malcontento che oggi ha un solo dato ufficiale: la disoccupazione al 45%. Per loro è quasi impossibile riuscire ad ottenere un visto per l’estero, per motivi di studio o anche solo per una vacanza. In tanti apprendono le lingue straniere, ma non hanno mai avuto la possibilità di lasciare la propria città. I limiti sono un’anagrafe da ricostruire dopo che la guerra l’ha portata via, documenti non riconosciuti da tutti gli stati europei ed un confine “molle” a nord, con la Serbia, tuttora soggetto a due differenti interpretazioni: regionale per Belgrado, statale per Pristina.

La traduzione pratica di una linea di demarcazione che non è la stessa per tutti è che la polizia kosovara non può prestare servizio di dogana e in quell’area deve essere ancora sostituita dal personale di Eulex, la missione civile dell’Unione Europea avviata nel 2008 allo scopo di contribuire alla realizzazione di un apparato statale, con le sue forze dell’ordine, i tribunali, il sistema penitenziario.

Nel marzo scorso per la prima volta rappresentanti politici serbi e kosovari hanno cominciato a parlarsi, dando il via ad una serie di negoziati seguiti direttamente dalle Nazioni Unite con la missione UNMIK, United Nations Interim Administration Mission in Kosovo. Ma il tema non è affatto il riconoscimento dell’indipendenza.

“I problemi sono di ordine quotidiano – racconta Lamberto Zannier, neo eletto segretario dell’Osce, Organization for Security and Co-operation in Europe, ma fino allo scorso 30 giugno rappresentante Onu per il Kosovo – dalle bollette della luce che non arrivano perché la competenza territoriale non è chiara, fino alle doppie elezioni amministrative che spesso portano alcuni comuni ad avere due sindaci, uno kosovaro albanese ed uno serbo. Perché quando in Serbia si vota le urne si aprono anche qui, e vanno a votare solo i serbi. Poi ci sono le elezioni del Kosovo, dove votano gli albanesi. E alla fine ci troviamo due amministratori per la stessa poltrona che non si riconoscono l’un l’altro”.

C’è una città in questo piccolo paese che forse più di altre rappresenta la difficile convivenza fra le due principali etnie: è Mitrovica, dove il ponte sul fiume Ibar di fatto divide ancora oggi la parte serba a nord da quella albanese a sud, ed è il simbolo di una ferita che stenta a rimarginarsi.

Eppure, alcune comunità di profughi serbi fuggiti durante la guerra sono rientrate in possesso delle loro terre. Nebojsa, il viso segnato dal sole, è tornato a fare l’agricoltore dove abitava fino al 1999, non lontano da Pec, insieme ad una quarantina di persone. È qui dal 28 marzo del 2010, e racconta che prima di ricostruirsi una casa, ha abitato alcuni mesi in tenda. È il capo villaggio di 15 famiglie, che ancora oggi sono sorvegliate 24 ore al giorno dai militari italiani della missione Nato KFor, o Kosovo Force, per intimidazioni e minacce ricevute in passato.

“All’inizio c’è stato un malinteso – dice Nebojsa – perché i gruppi che manifestavano contro di noi ci ritenevano responsabili di massacri compiuti durante la guerra, ma poi è stato accertato che nessuno di noi si era reso colpevole di omicidio. Tra l’altro in questo villaggio furono uccisi tre cittadini serbi e quattro rom, ma nessun albanese”. Nebojsa spiega che le cose sono migliorate pian piano, ma non riesce ancora ad avere fiducia in questo nuovo stato: “Come si fa a voler essere riconosciuti quando le proprie forze di polizia non sono in grado di garantire la sicurezza di tutti e di farsi rispettare? Le prime aggressioni che abbiamo avuto si sono verificate proprio quando c’erano loro a proteggerci.”

Nebojsa non è il solo a chiedersi cosa succederà quando i contingenti internazionali lasceranno il Kosovo, perché è difficile oggi dire che lo stato di calma e stabilità che si respira sia dovuto davvero al superamento di una delle grandi tragedie balcaniche, piuttosto che alla presenza sul territorio dei militari di altri paesi. A volte anche la stessa missione Nato fatica a comunicare se stessa all’esterno, perché qui non si spara più da un pezzo. Eppure solo l’Italia mantiene in Kosovo oltre cinquecento persone fra unità dell’Esercito, dei Carabinieri, dell’Aeronautica, oltre ai civili come giudici, avvocati poliziotti e finanzieri.

Sono loro che scortano le minoranze per garantirgli la libertà di movimento, e sono loro che presidiano i luoghi del culto ortodosso patrimonio dell’Unesco, come il monastero di Decani e il Patriarcato di Pec, di recente passato sotto il controllo del contingente sloveno.

I segnali positivi comunque ci sono. Pristina, la capitale, è un cantiere a cielo aperto: si rimettono a posto le strade, si costruiscono nuovi palazzi residenziali, centri commerciali. L’università è frequentata, come pure la biblioteca, e le facoltà vengono anche pubblicizzate con grandi cartelloni nelle piazze. Ma la povertà si percepisce lo stesso, come pure la mancanza di una pianificazione urbana, dove convivono edifici di vetro e discariche, grandi alberghi e piccole officine con annesso sfasciacarrozze.

Ma ogni luogo, qui, è segnato soprattutto dal ricordo. A Meja, nel cimitero che raccoglie le vittime albanesi di uno dei più grandi massacri del Kosovo, quello del 27 aprile 1999, c’è un andirivieni di famiglie che si fermano sulle lapidi dei propri cari, ornate con sgargianti fiori di tela. Qui non sono mai passati 12 anni.