L’opera, sviluppata da un articolo scritto per Atlantic Monthly nel 2002, sostiene che “il notevole livello raggiunto dagli aiuti materiali e diplomatici forniti dagli Stati Uniti a Israele” non può essere (più) spiegato con motivi strategici o morali. La ragione strategica viene infatti meno constatando che la posizione filoisraeliana degli Stati Uniti (giudicata decisamente sbilanciata non solo da Al Qaeda, cosa che non ci interessa, e dal mondo arabo-musulmano, ma anche dalla gran parte della classe dirigente e dell’opinione pubblica europea) non fa che danneggiare ormai l’immagine degli Usa nel mondo e ostacolare il tradizionale ruolo di mediatore di Washington in Medio Oriente, come si è visto in occasione della guerra tra Hezbollah e Israele e del vertice di Annapolis, in cui gli Stati Uniti si sono mostrati impotenti.
La ragione morale viene invece meno alla luce dell’inferno in cui vivono i bambini e le donne di Gaza: al di là delle pur gravi colpe della dirigenza palestinese, quale morale può più giustificare il sostegno a senso unico a favore di uno stato ricco e benestante (pur insidiato dal terrorismo) e contro un popolo povero e senza mezzi militari? Per gli autori quel livello di aiuti economico-militari non si spiega più, come sessanta anni fa, con la necessità di aiutare un popolo e uno Stato democratico amico, ma soprattutto con la forza politica della Israel lobby, i gruppi di pressione filoisraeliani americani (non necessariamente ebrei) che finanziano profumatamente le campagne elettorali dei politici democratici e repubblicani per poi condizionare la politica estera di Washington. Neanche l’argomento della “comune natura democratica” regge, visto il sostegno che gli Usa hanno offerto finora a regimi come quelli di Mubarak in Egitto e Musharraf in Pakistan. A chi sostiene che l’opinione pubblica americana approva a occhi chiusi questa linea, Walt e Mearsheimer ricordano che i sondaggi mostrano una realtà molto più complessa (nel luglio del 2005 la solidarietà a Israele non superava il 37%, secondo il Pew Institute, e gli stessi ebrei americani sono più a sinistra della lobby).
Gli autori definiscono un po’ vagamente la composizione della lobby (critica aspramente avanzata da Walter Russell Mead su Foreign Affairs), ma non ne mettono assolutamente in dubbio la legittimità (come per tutte le altre lobby) e non la considerano affatto una entità oscura e misteriosa (come vuole invece la propaganda complottista antisemita). Tuttavia sostengono che il potere di questa lobby va contro gli interessi americani (ovvero “garantire l’afflusso del petrolio del Golfo Persico verso i mercati mondiali, scoraggiare la diffusione di armi di distruzione di massa, ridurre il terrorismo antiamericano”). E va persino contro gli interessi israeliani di pace e stabilità. Questo è il punto decisivo. Fare di Israele “il cinquantunesimo Stato dell’Unione” non solo danneggia la politica estera degli Usa, ma aumenta l’inimicizia araba verso Israele, che rispetto ai suoi vicini è, anche grazie ai dollari di Washington, un gigante economico-militare: “L’incondizionato sostegno offerto a Israele ha messo in difficoltà il governo filoamericano di Beirut, rafforzato Hezbollah e consolidato i legami di quest’ultima organizzazione con Siria e Iran: risultati che difficilmente si possono considerare positivi, tanto per Gerusalemme quanto per Washington”. “La lobby – scrivono Walt e Mearsheimer – potrebbe perfino, nel lungo periodo, mettere a repentaglio le prospettive di sopravvivenza dello Stato ebraico”.
Gli autori non sono nemmeno contrari all’appoggio militare americano (“Siamo convinti che gli Stati Uniti – scrivono – abbiano il dovere di intervenire in difesa di Israele in qualsiasi situazione ne mettesse a repentaglio la sopravvivenza”), ma si oppongono a una visione unilaterale del conflitto mediorientale. Criticano i media statunitensi (“E’ più facile criticare la politica israeliana in Israele che negli Stati Uniti”) e ricordano che il rapporto tra i due paesi non sempre è stato di questo tipo. Solo con la guerra dei sei giorni la relazione è diventata squilibrata, tanto che già nel 1976 Israele divenne il più grande beneficiario dell’assistenza statunitense all’estero, “posizione che da allora non ha mai perduto”, visto che oggi riceve ogni anno una cifra, 3 miliardi di dollari, che equivale a “un sesto del budget americano per gli aiuti esteri diretti” (“Somme – commentano gli autori – che fanno impallidire gli aiuti degli Usa a paesi poveri come il Bangladesh, la Bolivia o la Liberia”). Sono state poi le amministrazioni di George W. Bush a segnare l’apice di questo unilateralismo. Tutta colpa degli intellettuali neocon, che rappresentano oggi la colonna portante della Israel lobby. E’ soprattutto contro di loro che si rivolgono Walt e Mearsheimer nel libro, e contro quei politici che hanno fatto propria l’ideologia di destra di associazioni filoisraeliane come l’Aipac o i cristiani sionisti. I risultati di questa tendenza sono sotto gli occhi di tutti: il disastro della guerra in Iraq (per la quale, secondo gli autori, si è battuta fortissimamente la lobby israeliana, molto più di quella del petrolio), l’impopolare sostegno alla guerra contro Hezbollah, la radicalizzazione dei rapporti con Iran e Siria.
“E’ giunto il momento di trattare Israele come un paese normale”, concludono Walt e Mearsheimer. Non è affatto una posizione anti-israeliana. I due autori, va detto, a volte sono molto severi verso Israele (come quando lo definiscono “un peso morto” per gli Usa, o sottovalutano i pericoli che l’Iran e Hezbollah rappresentano per Gerusalemme). Tuttavia è difficile non condividere la loro idea secondo cui la lobby neocon starebbe soltanto ostacolando il processo di pace. Il problema non è la presenza della Israel lobby americana, ma il fatto che sia schiacciata su posizioni di destra, simili a quelle del Likud israeliano. E allora per il futuro, non rimane che sperare che, visto il disastro iracheno e le ripercussioni negative che la pressione dei neocon filo-Likud hanno avuto sulla politica estera americana, la lobby israeliana si sposti più a sinistra, dove già si situano gruppi come l’Israel Policy Forum e Americans for Peace Now. Sarebbe un bene per chi a cuore l’America. E per chi ha a cuore Israele.