Cinema israeliano a Milano, chi l’ha visto?
Federica Zoja 30 novembre 2009

Milano

In occasione del centenario della nascita della città di Tel Aviv (1909-2009), la cinematografia israeliana meno conosciuta dal grande pubblico è sbarcata a novembre a Milano con una rassegna raffinata: titoli che hanno fatto la storia del cinema israeliano fra il 1969 e il 2008 e cortometraggi realizzati dagli studenti della Scuola di Cinema della capitale. Poco spazio sui mezzi di comunicazione e discreto successo di pubblico, ma “questo è solo l’inizio”, commenta la curatrice dell’appuntamento, Marta Teitelbaum, intervistata da Resetdoc.

“Viene molta gente?”, chiede alla cassa del cinema Gnomo di Milano una signora, attirata dalla locandina esposta di fronte all’ingresso. In proiezione nella sala, adiacente la Basilica di Sant’Ambrogio e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, la rassegna ‘Cinematov 2009, La collina della Primavera: cinema israeliano da Tel Aviv’. Curiosa, la passante insiste: “Verranno solo spettatori ebrei…”. Diplomatica e gentile la risposta: “C’è un discreto afflusso, dipende dai giorni, come per tutte le rassegne”.

Meno felice il dialogo successivo, con un’anziana ed elegante signora: “Ma la fate, poi, una rassegna palestinese?” e, subito dopo, in tono quasi biblico, “Servi, non siete che servi del potere!”. I presenti rimangono a bocca aperta per violenza e rapidità dell’intervento, seguito da veloce uscita di scena della provocatrice. A dimostrazione che lasciare fuori dalla porta la politica risulta spesso difficile. Ma per fortuna è un attimo e l’appuntamento in programma ritorna ad essere ciò che deve: una rassegna cinematografica nuova di zecca, nelle intenzioni degli organizzatori destinata a diventare annuale.

Come ha spiegato a Resetdoc Marta Teitelbaum, docente di lingua ebraica presso l’ateneo universitario di Amiens, giornalista e curatrice di ‘Cinematov 2009’. “L’idea di questo appuntamento, mi permetto di dirlo, è tutta mia. Dal 2000 in poi, il cinema israeliano ha riscosso un successo notevole, arrivando a Cannes, a Venezia, raggiungendo il grande schermo su scala internazionale con film, a mio giudizio, di grande qualità, ben fatti tecnicamente e che suscitano curiosità nel pubblico. Penso a ‘Il giardino dei limoni’, ‘Lebanon’, ‘Valzer con Bashir’”. Pellicole che parlano del conflitto israelo-arabo, verso il quale “c’è grande interesse”, “ma non sono legate soltanto alla guerra”. Si tratta di film che spalancano una finestra “su una realtà diversa: quella della società israeliana nel suo insieme, variegata, complessa. Segnata dalla guerra, ma anche da altro”, riflette la curatrice, che aggiunge: “Penso che la letteratura abbia giocato un ruolo fondamentale nel far conoscere Israele e preparare la strada al cinema israeliano: mi riferisco a romanzi come ‘Il vento giallo’ di David Grossman, o alle opere di Amos Oz e Abraham Yehoshua”.

Prosegue la curatrice, che risiede a Parigi, ma è anche cittadina israeliana: “C’è anche una letteratura non segnata dal conflitto: ad esempio, ci sono autori che si occupano, proprio come in Europa, della generazione dei 30-35enni che abitano a Tel Aviv, avidi, egoisti, concentrati unicamente su se stessi e sulla propria realizzazione”. Ecco allora la necessità di una proposta cinematografica inedita, stimolante per contenuti e linguaggi, che ripercorre un ampio arco di tempo: “Alcuni non sono film nuovissimi, il più vecchio in ordine cronologico è del 1969 (‘Il canale Blaumich’) – commenta Teitelbaum – I cortometraggi, invece, sono stati realizzati dagli studenti della Scuola di Cinema di Tel Aviv”. Poi aggiunge: “Ci tengo a sottolineare che questo non è un festival, peraltro esiste già un festival del cinema israeliano a Roma (il Pitigliani Kolno’a Festival, ndr), ma una Rassegna: niente competizione né giuria”.

Protagonista di questa prima edizione è stata Tel Aviv, la ‘Collina della primavera’, fil rouge fra le pellicole: “Quest’anno ricorrono i 100 anni della nascita della città, gemellata con Milano (A luglio l’orchestra della Scala ha suonato a Tel Aviv, ndr). Tel Aviv è considerata, non sono io a dirlo, una città moderna, giovane e tollerante, aperta, creativa, costruita da gente acculturata e per questo fin dall’inizio ricca di stimoli”. Così diversa rispetto alla ‘seria’ Gerusalemme, per tradizione e storia intrisa di spiritualità. “In Israele si è soliti dire: Gerusalemme prega, Tel Aviv si diverte, Haifa lavora”, scherza la docente.

“Ho pensato che un’introduzione fosse necessaria per ogni pellicola: questa è una produzione che difficilmente arriva al grande schermo, non tutto risulta chiaro agli spettatori”. A spiegare riferimenti e contesto il professor Asher Salah, storico, filosofo, esperto di cinematografia, docente presso la Scuola di Belle Arti Betzalel di Gerusalemme, animatore anche di un dibattito post-proiezione. “Il dibattito ha funzionato fino a un certo punto, ma la gente poi si avvicina, chiede informazioni – commenta la curatrice – Certo, la comunità ebraica ha partecipato, ma non sono venuti solamente gli ebrei milanesi. Io parto dall’idea che gli italiani in genere sono interessati al mondo e, quindi, mostrare uno spaccato della società israeliana, attraverso linguaggi cinematografici vari, può incontrare il loro gusto”.

Nelle otto pellicole proiettate dal 17 al 22 novembre, film di stile e impatto diverso, impegnati a ritrarre solitudine, competizione, povertà economica e culturale, conflitti generazionali, come in qualsiasi altra società. Sullo sfondo i conflitti regionali del 1967, ’73 e ’82, lo scoppio della Prima Intifada (1987), l’ombra lunga dell’Olocausto. Scarsa la copertura della rassegna da parte della stampa: “La prossima volta, se la rassegna sopravvive cureremo di più la comunicazione, bisogna interessare la gente”, commenta Teitelbaum. In termini quantitativi, senza dubbio, c’è di che imbastire un appuntamento regolare: la produzione israeliana è di “una ventina di pellicole all’anno”. Fra i temi che potrebbero essere affrontati prossimamente c’è quello dell’immigrazione: “Non se ne parla mai, eppure quanti sono i lavoratori arrivati in Israele dalle Filippine, dal Corno d’Africa, spesso clandestini che rischiano la vita attraversando il confine del Sinai”. Non per distrarre il pubblico dal nodo irrisolto dei conflitti mediorientali, ma per raggiungerlo con messaggi di pace, come auspicato dal Presidente del Consiglio Comunale di Tel Aviv, Yael Dayan, “venuta a Milano appositamente per l’inaugurazione”.