Le campagne per l’abolizione della tortura e contro la pena di morte. Le mobilitazioni per il rispetto dei diritti umani e civili dei prigionieri politici e contro l’orrore dei desaparecidos. Le iniziative in favore dei rifugiati e quelle dedicate ai bambini, contro lo sfruttamento minorile e contro l’arruolamento dei bimbi soldati. La difesa dei diritti dei gay e della comunità LGBT e la campagna contro la violenza sulle donne. La denuncia della violazione dei diritti umani in guerra e la rivendicazione della libertà di espressione. Sono le iniziative lanciate da Amnesty International – premio Nobel per la pace nel 1977 – nei suoi primi 50 anni di vita, celebrati quest’anno in Italia con la pubblicazione del libro “Io manifesto per la libertà” (Fandango Libri, 2011) che raccoglie 25 poster realizzati dall’organizzazione negli anni e 25 storie raccontate da personalità diverse – da Alessandro Baricco a Roberto Saviano, da Igiaba Scego a Sandro Veronesi, da Predrag Matvejević a Dacia Maraini a Francesca Comencini e tantissimi altri, scrittori, cantanti, attori, autori di fumetti. Gli scritti si accompagnano ai manifesti, talvolta li integrano a partire dalle immagini, talvolta li corredano di impressioni personali, riflessioni, testimonianze di attività svolte, di impegni presi in prima persona o di semplici sprazzi di quotidianità che spiegano come la difesa dei diritti umani e della dignità delle persone sia argomento quotidiano, che chiede di testimoniare e di agire in prima persona. Anche prendendo in mano una penna.
I poster di Amnesty International riportati nel libro – distribuiti nell’arco storico delle mobilitazioni, dalla denuncia dei prigionieri di coscienza in Unione Sovietica alla campagna “Io pretendo dignità” – seguono le attività dell’associazione e significano testimonianza, invito alla difesa dei diritti umani, denuncia. Impossibile citarli tutti se non con piena consapevolezza dell’arbitrarietà della scelta. Uno è degli anni Ottanta ed è scritto in francese: “Se per caso possedete uno di questi oggetti, potete far liberare un uomo”. Gli oggetti rappresentati nel poster sono due matite e cinque penne: Amnesty invita a raccogliere firme per appelli e casi urgenti che in questo modo possono imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica e chiede alle persone di metterci nome e cognome. Uno è degli anni Novanta contro la pena di morte, in inglese: “Tutti quelli che sono a favore della pena di morte alzino la mano”. In bianco e nero, sei persone con la mano alzata: Mao, Hitler, Saddam Hussein, Stalin, Khomeini e George Bush senior. Colpisce al cuore quello della giornalista russa Anna Politkovskaja: un ritratto in bianco e nero severo di una donna che «aveva la Russia nel cuore», come scrive Giovanni De Mauro nella sua testimonianza. Nel manifesto c’è la sagoma rossa della Russia nel petto dove Anna è stata colpita nel 2006 dagli spari che l’hanno uccisa.
Un poster merita di essere citato perché testimonia che la Storia va avanti: è del 2005, in italiano, e recita: “Questa volta lottiamo contro la libertà”. Su uno sfondo nero, ci sono le foto di Radovan Karadžić e Ratko Mladić, il primo arrestato nel 2008, il secondo pochi giorni fa dopo una lunghissima latitanza, responsabili del massacro di Srebrenica, Bosnia, ex Jugoslavia, Europa. A fianco, c’è la testimonianza dello scrittore Predrag Matvejević, che denuncia la responsabilità degli intellettuali in quanto accadde nella ex Jugoslavia: «Sono troppo pochi coloro i quali osano guardarsi allo specchio senza inorridire della loro immagine riflessa. Gli scrittori rifuggono da questo compito ingrato, gli intellettuali nazionalisti non vogliono considerare la propria nazione per quella che è o è stata, preferendo i miti rassicuranti e sempre eterni».
Ma non saranno eterne le battaglie, perché i risultati nel tempo arrivano. Anche se con fatica, anche se bisogna ogni volta ribadirli e difenderli. È violenza anche l’uso della parola “clandestino”, che la scrittrice Igiaba Scego chiama «parola immonda» che trasforma le persone in esseri mostruosi nel momento stesso in cui vengono bollate con questo termine, parola che fa diventare una «non persona». Sandro Veronesi riporta l’intervista a un condannato a morte che gli dice: «Io faccio parte della società e mettendomi a morte loro falliscono. Si degradano se uccidono me. Chiunque uccidano, si degradano». L’attore Filippo Timi centra il bersaglio raccontando i pensieri e il delirio lucido di una persona sotto tortura che invoca la propria morte per porre fine a una sofferenza immane – «Il cervello fischia, il treno della resistenza è arrivato al capolinea, fra poco, lo sento, fra poco si fermerà e allora tutti i ricordi scenderanno dai vagoni disperdendosi nella buia galleria dell’incoscienza».
Lydia Cacho, giornalista messicana torturata per aver denunciato la pedopornografia nel suo paese, racconta l’infanzia schiavizzata e il lavoro coatto che rende i bambini schiavi e li mina nel fisico e nella psiche. Una quindicenne le confida il suo prezioso segreto: «Da grande voglio essere come una di quelle bambine che giocano, non quelle che lavorano». Una ragazzina di nove anni le mostra le mani massacrate da 49 mesi di lavoro forzato nell’industria della seta. La giornalista Carmen Lasorella racconta il «grande circo» della guerra e delle guerre, quelle che tengono la scena per poco tempo e le guerre dimenticate, le guerre fra la gente che mietono vittime civili e quelle in televisione e per la televisione, che la giornalista racconta in questo modo: «Il circo dell’informazione arriva in massa, in massa addenta la cronaca e in massa se ne andrà». Ma c’è una novità, evidente nella rivolta in Nord Africa: i blog, internet, Facebook, YouTube, Twitter. «E il tam tam continua anche senza i grandi media. La censura ha le unghie spuntate. Probabilmente, mai come in questo momento, la voce dei popoli preoccupa i governi e può accedere a strumenti, che fino a pochi anni fa nessuno avrebbe immaginato, modificando di fatto la distribuzione del potere, a partire dai media, che non è poco».
I poster sono sempre espliciti, talvolta realizzati da artisti e fotografi, diretti nel colpire il bersaglio, nella denuncia, nella richiesta di mobilitazione. Si vuole raccontare la storia di Amnesty e nel racconto si finisce per trovare un pezzo di storia dell’umanità, quella delle violenze e quella che non si rassegna alla violazione dei diritti umani e della dignità delle persone. E si rimane fermi davanti agli occhi di una bambina afghana che guarda dritto in camera e sembra chiederci dove siamo e dove sia la nostra coscienza. Lei è lontana, ma il suo sguardo è davanti a noi.